Così ho abbracciato il mio fratello carnefice, che mi aveva tagliato le dita con il machete

Storie di guerra dal Nord Uganda dove grazie all'opera di un ospedale anche la violenza può trovare una via verso la redenzione

Articolo tratto dall’Osservatore Romano – «In quel momento mi sono accorto che, vicino a me, c’era un altro ragazzo, lo stavano medicando. Aveva una gamba fasciata, ma la benda era inzuppata di sangue. Piangeva disperato. I nostri sguardi si sono incrociati. L’ho riconosciuto. Era il ragazzo che mi aveva tagliato le dita con il machete (…). Spaventato mi sono seduto sul letto, coperto di sudore. Anche lui mi aveva riconosciuto e tremava come una foglia». Kenneth e James, a poche ore dal loro primo tragico incontro, si ritrovano vicini in ospedale, feriti gravemente nel corpo e nello spirito. E dopo essersi raccontati, sciolgono l’odio reciproco in un abbraccio che li salva. L’ospedale è il Saint Mary’s chiamato anche Lacor Hospital, a qualche chilometro da Gulu, nel Nord Uganda. Un luogo dove, negli anni mostruosi della guerra civile, «in due letti, uno a fianco all’altro, c’è la vittima e il carnefice che si riscoprono fratelli. Il Lacor accoglie e cura tutti, senza distinzioni».

Testimone dell’episodio, è Francesco Bevilacqua, manager milanese che vola in Africa per liberarsi del senso di incompiutezza che lo opprime e dieci anni più tardi racconta quell’esperienza, realmente vissuta, ne I bambini della notte (Milano, Il Saggiatore, 2014, pagine 226, euro 15), scritto a quattro mani con Mariapia Bonanate. Il libro è un commovente intreccio di più viaggi, un’esplorazione delicata e autentica di universi lontani che al Lacor si fondono fraternamente.

Il primo viaggio è quello del protagonista. Francesco scopre tra le macerie d’Africa un inferno che non credeva possibile, vi si immerge e ne esce completamente cambiato. A guidarlo, tra i campi profughi e i reparti dell’ospedale, tra i bimbi orfani e le strade di polvere rossa minacciate dai guerriglieri, brother Elio, fratello laico comboniano, che da oltre vent’anni vive, soffre e combatte come un “alcoli”, la gente del Nord Uganda. Il suo viaggio, come tanti altri qui, non prevede ritorno.

Elio Croce, figlio delle Dolomiti, ha scelto di vivere nella savana. È «un uomo che incontra “l’altro” con un istintivo, spontaneo, senso di reciproca appartenenza». Un religioso che, instancabile, costruisce la pace, con il cuore aperto e con il sudore della fronte, mentre, mattone su mattone, tira su muri capaci di proteggere gli innocenti dalla ferocia insensata della guerra. La lettura del suo diario, «scritto per salvare da un oblio ingiusto persone e fatti, destinati a scomparire nel nulla», offre a Francesco occhi nuovi.

«C’è un continuo alternarsi in queste pagine — commenta il protagonista — fra la storia del Paese e il destino collettivo e individuale di centinaia di persone (…). Sono i volti delle mamme che stanno morendo di Aids e hanno affidato piangendo a Elio i loro figli. È il volto di Margaret Arac, alla quale, durante un agguato, un colpo di bazooka ha portato via un piede. Si è salvata fingendosi morta, mentre i ribelli violentavano le altre donne ferite e poi le uccidevano (…). È il volto di suor Paola, una delle tante religiose sconosciute, che hanno donato la vita per la gente di questo pezzo d’Africa. Donne eroiche, generose, geniali, che non fanno notizia, se non due righe sui giornali quando sono ammazzate». Perché — si chiede con insistenza Francesco all’inizio — Elio e tanti altri rimangono? Come sopportano tanto dolore? Come convivono con la paura?

Una prima risposta è nel viaggio che Dan, orfano di nove anni, responsabile di quattro fratelli più piccoli, compie ogni sera in fuga dal proprio villaggio, dove rischia di essere rapito dai guerriglieri e trasformato in soldato. Lui, come altre migliaia di bambini, cerca rifugio nei cortili del Lacor e percorre chilometri e chilometri a piedi, quasi sempre a digiuno, per varcare i cancelli dell’ospedale prima del coprifuoco e poi, di nuovo, all’alba. Sono i night commuters, i bambini della notte, che come un unico grande tappeto umano si stendono in tutti gli spazi all’aperto dell’ospedale, sporchi, laceri, infreddoliti, e si addormentano, bagnandosi quando piove.

La seconda risposta è nel viaggio che ha trasformato un angolo di terra dilaniata in un baluardo di umanità. Nel 1961, arrivano in Nord Uganda, due medici, il chirurgo canadese Lucille Teasdale e il pediatra italiano Piero Corti. Il Saint Mary’s è un piccolo ospedale aperto dai comboniani e loro ne fanno il proprio sogno professionale e familiare. Qui si sposano, mettono al mondo una figlia e creano una struttura d’avanguardia che con «le migliori cure possibili al minor costo» diventi per gli alcoli e non solo una concreta speranza di sopravvivenza.

Quando iniziano, le sfide da affrontare sono povertà e malattie, ma nel giro di pochi anni, la forte insatabilità politica del Paese determina uno scenario disastroso, dominato dalla violenza. Per vent’anni i gruppi ribelli riparati al Nord alimentano una guerra civile tra le più sanguinarie e sconosciute della storia contemporanea. Il Lacor diventa suo malgrado ospedale di guerra e Lucille chirurgo di guerra, in grado di operare senza sosta per giornate intere. L’emergenza continua del conflitto — con incursioni, assalti, sparatorie, rapimenti del personale — non ferma tuttavia la vocazione dei due medici occidentali, pur costretti, con grande sofferenza, a mandare per qualche anno la figlia Dominique in Italia. Loro non mettono mai in conto di lasciare l’Uganda e il Saint Mary’s non smette mai di allargarsi a nuovi reparti, a nuove specializzazioni a nuovi progetti, a cominciare dalla scuola per infermieri. Con l’obiettivo primario, oggi raggiunto, di passare interamente le consegne agli ugandesi. Le prove più dure arrivano quando alla tragedia del conflitto armato, si affiancano la minaccia dell’Aids e la mostruosa esplosione dell’ebola. In entrambi i casi, a distanza di pochi anni, il Lacor fa scuola nel mondo, grazie a scoperte tempestive e a protocolli d’avanguardia. E dà un esempio in grado di scuotere l’indifferenza occidentale. Lucille contrae il virus dell’Hiv ferendosi con alcune schegge d’ossa mentre opera un paziente colpito da una granata. Le danno due anni di vita, ma va avanti a lavorare per altri dieci, sino al 1996, ricevendo premi e riconoscimenti dalla comunità internazionale. Il suo successore, il medico ugandese Matthew Lukwiya, cadrà vittima dell’ebola nel 2000, dopo essere riuscito per mesi ad arginare gli effetti devastanti dell’epidemia grazie a qualità umane e professionali fuori dal comune. Il suo non-viaggio è forse il capitolo più toccante della storia.

Quando Piero lo manda all’estero per una specializzazione di un anno e la sua bravura gli guadagna una proposta di lavoro in Inghilterra, il giovane medico rifiuta. Rifiuta la vita agiata e la tranquillità che non ha mai conosciuto e sceglie di rimanere a Gulu, al servizio della propria gente. Matthew è il tredicesimo dipendente del Saint Mary’s a morire di ebola, ma anche l’ultimo: le misure da lui approntate, infatti, sconfiggono l’epidemia. Il suo corpo viene sepolto accanto a quello di Lucille, sotto due grandi alberi nel giardino dell’ospedale. Pochi anni più tardi li raggiunge Piero e oggi che il Lacor è il secondo ospedale del Paese, guidato da tre medici ugandesi e sostenuto da una fitta rete di solidarietà che fa capo a Dominique Corti, quei due alberi accolgono ogni giorno preghiere e ringraziamenti.

Tra le tante persone che si inginocchiano sulle lapidi dei tre medici, anche Dan, giovane studente di medicina, e Francesco, tornato più volte a Gulu. «Le loro vite sono dei capolavori di amore gratuito e di promozione sociale e umana», scrivono Bevilacqua e Bonanate. E la loro vocazione, «una medicina che aggiungeva vita alla vita».

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