Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Poetica della Musica, un agile volumetto che raccoglie un ciclo di conferenze tenute da Igor Stravinsky ad Harvard nel ’39-’40, potrebbe sembrare un titolo per soli musicisti. Lo è certamente, perché è una riflessione affascinante sul processo creativo, sulla natura della melodia, sull’esecuzione, sulle forme musicali. Ma è molto di più. Si sarebbe potuto intitolare “Poetica della vita”, perché le riflessioni che propone straripano con forza dallo specifico musicale, e parlano dell’uomo “totale”: «È necessario un uomo perché quelle promesse della musica siano mantenute».
Quando Stravinsky parla, sono anni drammatici per l’Europa e la Russia. Rifiuta l’etichetta di rivoluzionario, citando l’oste di Calais che si lagnava amaramente con Chesterton della durezza della vita e della mancanza di libertà: «Valeva proprio la pena fare tre rivoluzioni per tornare sempre allo stesso punto?». Commenta Stravinsky: «L’arte è costruttiva per sua natura, mentre la rivoluzione implica una rottura di equilibrio». Rivoluzione è «caos provvisorio» e «l’arte è il contrario del caos». E se l’arte si abbandona al caos, si vede «minacciata nelle sue opere vive, nella sua stessa esistenza», perché «la rivoluzione è una cosa, la novità è un’altra».
La lezione sulla composizione musicale è l’apice di queste riflessioni. «Viviamo in un tempo in cui la condizione umana subisce delle profonde scosse. L’uomo moderno sta per perdere la conoscenza dei valori e il senso dei rapporti». Così, «poiché lo spirito stesso è malato, la musica del nostro tempo, e in particolare quella che si dice e si crede pura, porta in sé le tracce di una tara patologica e propaga i germi d’un nuovo peccato di conoscenza: il vecchio peccato originale è anzitutto e soprattutto un peccato di disconoscimento della verità e delle leggi che ne derivano». Un giudizio che vale anche per tutti i presunti “puri” di oggi.
Senza appoggio non c’è movimento
E propone la necessità di riappropriarsi della tradizione (non un’abitudine, ma un lavoro, consapevole e volontario): «Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente»; non è «la ripetizione di quel che è stato, presuppone la realtà di quel che dura». «Si riannoda una tradizione per far del nuovo. La tradizione garantisce così la continuità della creazione». Infine, un passaggio straordinario sulla libertà. «Io provo una specie di terrore quando (…) ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiarmi a nulla per costruire.
Ora, in arte come in ogni altra cosa, si costruisce soltanto su un terreno resistente: ciò che non consente appoggio, non consente neanche il movimento». È un’intuizione straordinaria, assolutamente controcorrente rispetto al modello educativo vigente. È, questo, il saggio inattuale di un vero umanista, un libro di formazione che non si può non leggere. Almeno da parte di chi «non ha perduto il gusto dell’ontologia» e non vuole spaventarsi «di sé e del proprio destino». E, per questo, tiene viva «la vigilanza della memoria». Grazie a Curci, che ce lo ha riproposto.