Cinema melandrino

Tutto quello che avreste voluto sapere dei soldi – i vostri – con cui la commissione per il cinema del governo del centrosinistra ha finanziato i cosiddetti “film di interesse nazionale culturale”. Decine di miliardi a perdere per pellicole viste solo dagli addetti ai lavori o addirittura mai uscite nei cinema italiani. Quelle in cui non ci mettono becco (“Ultimo bacio”) sbancano il botteghino. Vuoi vedere che gridano alla censura solo per nascondere piccole e grandi frodi di conventicole intellettuali? Il caso, molto istruttivo, di Ciprì e Maresco, che a partire dal 9 di aprile dovranno rispondere in tribunale non solo di blasfemia (a chi tange?) ma di «truffa aggravata nei confronti dello Stato»

Chi si è perso “La ballata dei lavavetri”, “Escoriandoli”, e “Dolce far niente”? Chi non ha sentito parlare di “Alleluia, alleluia…correva l’anno 1999” o de “Il popolo degli uccelli”? L’era dell’Ulivo andrà ricordata anche per questi titoli di film sovvenzionati con i quattrini provenienti dalle casse statali. Che il cinema italiano non goda di buona salute è notizia nota da anni. Vige lo strapotere dell’industria americana, i numeri parlano più che chiaro. La quota di mercato del movie statunitense copre circa il 70 per cento del totale. I film di produzione nostrana che ottengono incassi superiori al miliardo sono un’esigua minoranza (nel 2000 solo 17 film italiani hanno superato i 2 miliardi). Ovvio che si tenti di arginare l’en plein hollywodiano al botteghino e si cerchi di valorizzare il nostro sgangherato “Cinema Paradiso”.

La cricca (monocolore) degli esperti
Proprio per questo in Italia esiste, all’interno del ministero dei Beni Culturali, la “Commissione Consultiva per il cinema”. Al suo giudizio si rimette l’autore italiano presentando la sceneggiatura nella speranza che gli sia riconosciuto un lavoro di “interesse nazionale culturale”. Non è un titolo onorifico ma il lasciapassare per accedere ad una seconda commissione ministeriale, quella per il “Credito Cinematografico” che si occupa di spartire il centinaio di miliardi messi a disposizione annualmente dallo Stato. E così periodicamente attribuisce ad ogni singolo film un finanziamento ritenuto idoneo per la realizzazione del progetto. Si va da un minimo di 800 milioni ad un massimo di 8 miliardi. L’operazione si ripete di continuo: la Commissione Consultiva verifica e approva, quella di Credito decide l’entità del finanziamento, la Banca Nazionale del Lavoro disbriga la pratica dei pagamenti. Se il film non incassa le cifre dovute lo Stato si assume “il rischio d’impresa” che, il più delle volte, coincide con un finanziamento a fondo perduto. Questo l’iter che ha portato sugli schermi italiani “Una cavalla tutta nuda”, “Cronaca di un giovane caffelatte” e “Spiaccichicciaticelo”. Da sempre le decisioni della commissione sono state al centro di polemiche e facile bersaglio per l’ironia dei giornalisti. Ma con l’era dell’Ulivo tutto (a sentir loro) è cambiato. Per questo il capo del Dipartimento dello Spettacolo, la dottoressa Rossana Rummo, ha sempre sconfessato i critici e più volte ribadito la buona salute del mondo della celluloide italica. «Il nostro cinema attraversa una nuova primavera» dichiarò a gennaio al festival di Berlino. Così anche per Dacia Maraini, ex componente della commissione, «il cinema italiano è vivo e felice, in questo momento. Dobbiamo smetterla di denigrarci sempre». A far loro eco ci pensa il ministro Giovanna Melandri che non perde occasione per pavoneggiarsi di film italiani che, se hanno avuto successo, l’hanno avuto non certo grazie all’intervento statale. Anzi, proprio per il non-intervento. Alle tre signore va invece riconosciuto il merito di aver portato nelle sale “Branchie”, “La rumbera” e “I fetentoni”. Gli esperti che hanno aiutato la dottoressa Rummo nella scrematura delle sceneggiature sono: Franco La Polla, giornalista e critico cinematografico di “Cineforum” (la rivista cinematografica cult della sinistra) docente universitario a Padova e, da sempre, sostenitore dell’Ulivo. Oreste De Fornari, attualmente al Corriere ma prima critico per l’Unità e per Rai3. In televisione è ricordato come il presentatore di programmi con share da “0,5” quali “Diritto di replica”, “Letti gemelli” e “Perdenti”. Callisto Cosulich, giornalista dell’Unità e collaboratore di Repubblica che ha sostituito Dacia Maraini. David Grieco, anch’egli dell’Unità, e sostenitore dei registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco (di cui si dirà in seguito). Giulio Baffi, che ha sostituito il critico dell’Espresso Mario Fortunato, e Mario Verdone, padre di Carlo e docente di Storia del Cinema a Roma, entrambi dell’area ulivista. A coordinare questa commissione la suddetta Rossana Rummo, scelta dal ministro dei Beni Culturali Giovanna Melandri, dopo essere stata Segretaria particolare del ministro Luigi Berlinguer al tempo dell’Ulivo 1.

Più ti finanzio meno incassi. Meglio soli che dall’Ulivo accompagnati
«Mi devono spiegare qual è il metodo che porta lo Stato a finanziare film come “I fetentoni” e non un altro» sbottò il produttore Dino De Laurentis, ad un giornalista del Messaggero. Quale “interesse culturale” può avere “I vesuviani”, opera a episodi di cinque presunti registi che, per loro stessa ammissione, hanno giocato «a fare un film»? E che respiro “nazionale” possono avere film che vengono proiettati, nella maggior parte dei casi, solo in alcune regioni delle Penisola? La richiesta di De Laurentis è un interrogativo che facciamo nostro dopo aver confrontato quanti quattrini sono stati elargiti per realizzare film di “interesse culturale nazionale”, e quanti effettivamente sono poi stati gli incassi al botteghino (vedi box). Nel 2000 27 film hanno ricevuto l’attestato con un esborso complessivo da parte dello Stato di 93 miliardi. L’incasso totale degli stessi è stato di 12 miliardi. Si tenga presente che la nostra lista rende conto di quei film che nelle sale, almeno una volta, ci sono andati. Perché molti li hanno visti solo i cameramen degli stessi. Ma la tabella parla da sé. Leggete e giudicate. Se è pur vero che la qualità di un’opera non si può giudicare solo dal suo box office tuttavia rimane il dubbio sul perché si continui a finanziare il cinema in questo modo. E soprattutto, come dimostra il caso de “L’ultimo bacio”, pellicola sbancabotteghini di Gabriele Muccino, solo di una certa linea culturale. Questa (in breve) la vicenda di un film che si posiziona, proprio in questo periodo, nei primi posti delle classifiche cinematografiche. Muccino presenta la sceneggiatura alla Commissione Consultiva che la boccia in quanto la ritiene «ottusa». Il trentenne regista è giudicato colpevole di ambientare il proprio film «tra la piccola borghesia metropolitana, dove notoriamente i disagi sono perlopiù indefiniti». Gli riconsegnano in mano la sceneggiatura e lo invitano a riscriverla e a ritentare. La morale dichiarata del suo film, che Muccino riassume con lo slogan «La vera rivoluzione è la normalità», non deve essere piaciuta a Rummo&Soci. Il regista si rivolge altrove e trova il successo che cerca. Il film scala la classifica degli incassi e i critici accostano il suo nome a quello dei grandi registi italiani. Non male per essere un ottuso. Giovanna Melandri ha giustificato così la bocciatura dei suoi colleghi: «L’autonomia delle commissioni significa che anche loro possono sbagliare. Ma un tempo si finanziava qualunque progetto». Ora invece si va sul sicuro e si da credito, tanto per far un confronto, a “Ponte Milvio” di Roberto Meddi. Finanziamento ottenuto: 1.578.000.000. A casa ha portato 9 milioni. Che in termini di spettatori significa: 847 persone (non siamo in grado di dirvi quanti di questi fossero imparentati col regista, gli attori e i cameramen). E, sempre per stare alle parole della Melandri, “A domani” di Gianni Zanasi è stato visto da 14.016 coraggiosi ed è stato proiettato in 35 città per 264 giorni. Media di spettatori in sala: 59. Gli era stato consegnato dallo Stato 1.167.000.000 di lire.

Tentata truffa aggravata
Il 9 aprile e successivamente il 12 per la proiezione del film, i registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco dovranno difendersi dalle accuse di «vilipendio della religione e tentata truffa aggravata ai danni dello Stato a mezzo preventivo». Si ricorderà che il film “Totò che visse due volte” nel febbraio 1998 aveva sollevato un vero e proprio polverone. Molte associazioni cattoliche ne avevano chiesto la censura e per settimane l’argomento aveva invaso le pagine dei quotidiani e gli schermi televisivi. Il regista Carlo Verdone intimò ai censori del film di non farsi condizionare dal “clima pre-giubileo”. Fu tale il clamore che l’allora ministro per lo Spettacolo, Walter Veltroni, fece approvare un disegno di legge che aboliva la censura preventiva. Tra il tripudio e il plauso dell’intellighentsia “progressista” (“Cineforum” li paragonò a Pasolini) il film andò nelle sale. Quello che in pochi scrissero (e scrivono oggi) è che l’opera fu “apprezzata” da uno sparuto gruppo di spettatori. Sebbene fosse stato tanto il clamore la gente preferì discutere del film e dell’opportunità o meno di avere una commissione piuttosto che andare a vederlo. Ma tutto il problema “religioso e di censura” fa passare sotto silenzio la seconda parte dell’accusa. Il film, una sequenza di obesi che ruttano, scureggiano e si masturbano con crocifissi, era stato giudicato dalla commissione consultiva per il cinema di “interesse nazionale culturale”. Budget assegnato: 1 miliardo e 175 milioni. Ma un ispettore della Banca Nazionale del Lavoro avanzò il dubbio che per confezionare un film in bianco e nero, con attori non professionisti, girato interamente all’aperto, non fossero necessari tutti quei quattrini. Secondo il magistrato Trivellini per il film bastano (e avanzano) 800 milioni. Fra gli ultimi film “culturali” approvati dalla commissione ci sono “Commedia Sexy” di Claudio Bigagli (2 miliardi e 885 milioni) e “E adesso… sesso” di Carlo Vanzina (2 miliardi e 826 milioni). Niente di cui stupirsi, nel 2000 il cinema porno italiano è andato a ruba in tutta Europa. Il governo deve aver deciso che è questa la linea per lanciare i nuovi film di “interesse nazionale culturale”.

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