Chi ci salva dai khmer verdi?

Il premier irakeno Allawi ha detto all’Europa che «non esiste la neutralità, chi non combatte il terrorismo con noi adesso avrà presto i terroristi in casa».

L’Europa ha occhi ma non vede
Ma l’Europa sembra al massimo giocare una partita tutta in difesa, come fa Chirac, che porta in Tv i capi dell’islam francese, prega i terroristi di considerare il fatto che la Francia non è andata in guerra e pratica sì la religione laica però tutti sono liberi di andare in chiesa o in moschea.
Ma l’Europa, in quella fabbrica della sua rovina che è il pacifismo multiculturalista che riecheggia in ogni spot e in ogni scuola, ha occhi ma non vede il progetto dei Pol Pot dell’islam di trasformare il Medio Oriente in un campo di sterminio.
E non ha orecchi per sentire il programma dei “khmer verdi” che, a suon di sequestri e ricatti stragisti, vorrebbe fare del mondo il campo di rieducazione degli infedeli.
Come al tempo dei totalitarismi del secolo scorso gli intellettuali europei hanno chiuso gli occhi per “analisi” o per “tattica” allo sterminio e alle rieducazioni dei popoli (come negli anni Trenta fece il comunista Adorno per ingraziarsi il nazista Goebbels, e come negli anni Settanta fece la cultura e la stampa democratica italiana con la Cambogia), così oggi, per “antiamericanismo” o per “multipolarismo”, davanti a un terrorismo che taluni chiamano di nuovo “compagni o antagonisti o ribelli che sbagliano”, l’Europa è ostaggio dei “se”, “ma”, e “però”. Indifferenti ai fatti – e principalmente al fatto che non ha senso insistere sugli errori di una guerra passata per giustificare la vigliaccheria davanti a una guerra che ci è stata imposta per dissuaderci da ogni impegno di ricostruzione e pacificazione dell’Irak presente – l’intellettuale europeo soppesa i cui prodest e considera gli avvenimenti in chiave di interpretazione o progetto politico (Kerry o Bush, Berlusconi o Prodi, eccetera).
D’altronde non è neanche vero che è stata la guerra in Irak a dividerci.
Dalle Torri gemelle alle stragi di Madrid, dagli sgozzati di Baghdad ai bambini bomba di Gerusalemme, da Quattrocchi a Baldoni, più della barbarie gli intellettuali europei temono “le strumentalizzazioni”, più dell’uomo reale che vedono soccombere sotto l’esecuzione sommaria per kamikaze, decapitazione o pallottola alla nuca, insistono nel celebrare le proprie astrazioni, sentimentali, multipolari o di terza via tra terrorismo e politica Usa.

Il “metodo” del Meeting di Rimini
L’ideologia è un alcool forte e il suo metodo consiste nel fare il deserto intorno a tutto ciò che è reale, e perciò umano. Questo alcool e questo metodo sono stati la Mambro al tempo dei Nar, la Mantovani al tempo delle Br, il poeta Tolentino al tempo dell’infatuazione per Sartre.
Il contrario dell’ideologia è la fede, un metodo che scaturisce dal riconoscimento di una presenza corrispondente all’umano, una presenza tale che non ha bisogno di costrizioni per mobilitare la libertà e che è capace di spostare le montagne perché quandanche fosse incapace di dire una sola parola o compiere una sola azione essa mette in moto tutta la persona verso il bello, il buono, il giusto, la pace, la gratuità. È questo moto che sono oggi anche la Mambro, la Mantovani, il Tolentino che abbiamo incontrato al Meeting di Rimini, letteralmente “uomini nuovi”.
Giacché novità è libertà dall’ideologia, salvezza dal precipizio di un mondo a una sola dimensione, privo di profondità e di affezione, sabbia che si deposita ad asciugare il sangue delle ferite e fideismo che spegne ogni sorgente di vita. La legge della presenza che si oppone al deserto è l’avventura e l’incontro.
La legge dell’ideologia desertificante è la negazione di ogni avventura e di ogni incontro.
Ecco allora la carica di possibilità (anche antiterroristiche) espresse da eventi come il Meeting di Rimini.
Lo abbiamo seguito su tutti i giornali, nella sua XXV edizione caratterizzata dal bell’imprevisto di giornalisti che sono stati più liberi del solito di frequentarlo e raccontarlo per quello che al Meeting accadeva e non per quello che al Meeting doveva necessariamente accadere secondo gli schemi e le guerricciole della politica delle chiese o della cultura italiana. Lì, nella molteplicità di prassi politiche, religiose, culturali, nella varietà di interessi e occupazioni che determinano ogni esistenza umana, da quella sindacale a quella scientifica, dal politico all’artista, si è vista in luce l’unica resistenza offensiva possibile davanti al deserto che avanza.
Cosa crea dialogo, speranza, pace?
L’impossibile corrispondenza di una presenza.
Come quella testimoniata da Imad El Atrache, responsabile degli Esteri di Al Jazeera, che alla platea riminese, in pubblico, davanti a migliaia di persone, ha detto «ho conosciuto gli amici di Cl in università, stando con loro ho riscoperto la mia fede, grazie a loro sono diventato un vero musulmano».

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