Canto notturno di una Russia errante per l’Asia

La Russia alle soglie del 2000. La sua disperazione sociale, i suoi miti messianici e nazionalisti, la sua chiesa ortodossa. Un paese che guarda all’Europa ma che si sposta sempre più verso l’Asia. Un grande paese e un grande popolo in cerca di una leadership che non strumentalizzi la sua profonda anima religiosa. Dall’epoca zarista ai giorni nostri. Dalla divinizzazione di Lenin e Stalin, alla delusione del post-comunismo. Dalla tragedia della statalizzazione della chiesa ortodossa al panslavismo che si va affermando dopo la guerra in Kosovo. La nostalgia del Papato e l’imprevedibile futuro del dopo Eltsin. Uno dei più grandi storici russi viventi racconta in esclusiva per Tempi un mondo pressoché sconosciuto e stereotipato in Occidente

Conversazione di Ivan MartynoveOlga Kvirkvelija con lo storico russo Eduard Stanislavovich Radzinsky Eduard Stanislavovich Radzinsky e’ uno degli storici piu’ autorevoli e piu’ amati in Russia. Dalla fine degli anni ’80 interviene regolarmente in televisione, proponendo in vari programmi la rivisitazione della storia russa, allo scopo di ristabilire verita’ dimenticate e di illuminare circostanze presenti della vita russa. E’ autore di numerosi volumi, che in alcuni casi sono divenuti veri e propri best-seller in patria e all’estero, come il libro sull’ultimo zar Nicola II e su Stalin.

Eduard Stanislavovich, la guerra in Kosovo ha rivelato una spaccatura profonda tra est ed ovest. In ogni caso ha fatto emergere una realtà che contrasta con la visione del mondo a una dimensione. Quali sono le impressioni di un russo su questa vicenda?

Di recente ho ritrovato un articolo della rivista Moskovskye Vedomosti del 1913, quando si vagheggiava del sogno di un impero slavo, al tempo dell’ennesimo conflitto balcanico contro i turchi. I russi si schierarono con i bulgari, che poi gli si rivoltarono contro, e cominciarono a farsi la guerra l’un l’altro. Già allora era evidente l’impossibilità a pacificare quei paesi, infatti poi la seconda guerra mondiale iniziò nei Balcani. Saranno sempre oggetto dei giochi politici dei grandi, un po’per la loro posizione geografica, un po’ per la curiosa convinzione delle potenze occidentali di essere responsabili di quei paesi, senza al contempo sentire la responsabilita’ per le persone che vivono all’interno di quell’area geografica. Anche nel 1913 c’erano forti pericoli, si era sull’orlo dell’esplosione. A quei tempi il razzismo e l’antisemitismo erano scoperti e ufficiali nell’impero multietnico russo, e così pure il nazionalismo. Esisteva allora come oggi il problema del Caucaso; infatti dal Caucaso usciranno quasi tutti i rivoluzionari. Il primo Soviet di Pietroburgo era formato da georgiani; lo stesso Stalin dovette poi disfarsi dei suoi conterranei.

La Russia ha sempre sollevato la questione dei suoi interessi strategici nei Balcani, questione però del tutto incomprensibile per i contadini russi, che neanche sapevano dove si trovassero i Balcani. Per questo Rasputin, che era la voce delle campagne, era assolutamente contrario alla guerra, basandosi sull’opinione del suo villaggio, che si preoccupava piu’ che altro del raccolto.

Il potere in Russia è sempre intriso delle sensazioni della Terza Roma, affermando che la Quarta non ci sarà sulla base di una profezia di Daniele, che peraltro riferiva di tutt’altro, e cioé di tre regni destinati a crollare. Altro simbolo leggendario è il colbacco dei Monomach, che si vuole essere un segno dell’eredità bizantina, quando invece si tratta di una corona tartara del XIV secolo. In Russia conta più di tutto il mito e la percezione della realtà è molto simbolica. Cosí i Balcani sono un simbolo,utile a far dimenticare gli enormi problemi della Russia. In realtà l’unico interesse strategico di Mosca è l’accesso ai mari caldi, al Mediterraneo. Nel manuale dei cadetti dell’esercito zarista era scritto: “la Russia è un paese militare”. E questa enorme armata insieme con il suo zar si è sempre sentita in guerra, come succede ancora oggi con Eltsin.

Come esce la Russia dopo la sconfitta subita dal suo alleato Jugoslavo?

Ne esce molto bene. Almeno sul piano della propaganda interna. La guerra in Kosovo ha restituito alla Russia il proprio scopo. Al Cremlino non sapevano più da che parte andare – verso il capitalismo non si può, perché “capitalismo” ha un significato totalmente spregiativo nella lingua russa, infatti si dice che andiamo “verso l’economia di mercato” – e così il conflitto con l’occidente ha riproposto il mito di un futuro, ignoto, ma simile a quello luminoso predicato dall’ideologia dei popoli slavi o dal comunismo. Abbiamo scoperto che tutto il male che si diceva del capitalismo in periodo sovietico era vero, e tutto il bene che si diceva del socialismo era una menzogna.

Vuole dire che la guerra ha restituito alla Russia una sorta di onore perduto dopo la caduta del muro di Berlino?

Voglio dire che dopo la caduta del comunismo, i russi si attendevano cambiamenti e passaggi rapidi verso un “nuovo mondo”. È la stessa cosa che era accaduta al tempo della rivoluzione bolscevica, tant’è che agli albori della rivoluzione Lenin amava ripetere che “il socialismo ci guarda da tutte le finestre”. Quando negli anni ’90 si è capito che tutto avveniva molto lentamente, si è diffusa la disperazione. Lo stesso accadde nei primi anni della rivoluzione: tutti erano infervorati e si lanciavano nelle piazze a proclamare l’arrivo imminente del socialismo, mentre Stalin si rimboccava le maniche e in silenzio costruiva la burocrazia. Ci mancava uno scopo, e la guerra in Kosovo ce ne ha dato uno, anche se è evidente che la guerra è stata un errore madornale della NATO. Come ha detto il Papa, non c’è bene che venga dal sangue, e un paio di giovanotti esagitati come Blair e Clinton ce l’hanno dimostrato una volta di più. Sì, la guerra ha in qualche modo cementato la Russia: adesso si possono chiedere piu’ sacrifici, poiche’ bisogna mantenere un grosso contingente militare in Kosovo, che si mangerà un sacco di soldi. Finora in Russia i soldi mancavano perche’ li rubavano, ora mancheranno per un nobile scopo. Da noi c’è un proverbio che dice: “in Russia le guerre non si perdono, si rubano”. Siamo in Asia.

In Asia?

Ma certo! La Russia è una potenza asiatica, dove il furto è la norma, finché non arriva lo zar crudele che mette a posto tutti. Basta guardare le storie dei boiardi e di Ivan il Terribile: Ivan da bambino visse tra i ladri, appena crebbe cominciò ad ammazzarli tutti.Lo zar in Russia si è sempre preoccupato di mantenere la mentalita’ del potere, dell’autocrazia che si regge sul silenzio dei sudditi. Eltsin con il Kosovo ha capito di essere anche lui un vero zar russo, cioe’ un capo militare. Gli zar russi adoravano i combattimenti; Nicola II portò l’uniforme fino alla morte, detestava gli abiti civili, amava il dittatore Stolypin perche’ era alto, barbuto e prestante, e odiava il riformatore Witte perche’ era glabro, panciuto e portava gli occhiali.

Non trova che il regista Michalkov nel suo ultimo film “Il barbiere di Siviglia” ripropone un po’ questa mentalita’ zarista?

Milchalkov, come ogni buon regista, si basa sulle intuizioni e non sulla conoscenza. I registi, come gli attori, devono essere ignoranti. Nel suo film, per esempio, suppone che tutti gli ufficiali sapessero il francese, mentre sappiamo che non è affatto vero, ne sapevano a malapena qualche parola (basta leggere Griboedov). La sua idea della Russia perduta è stupefacente. L’onore degli ufficiali è un altro mito: durante la guerra civile rubavano tutti, anche i cosacchi, anche i nobili ufficiali bianchi. Michalkov deve continuare a fare il suo lavoro: se si butta in politica, ci sarà un artista di meno, e non è affatto detto che acquisteremo un politico in piu’.

Quali sono le origini della deriva nazionalista?

È l’“Idea russa”: il nazionalismo è l’ultima spiaggia della debolezza, quando crollano le ideologie politiche ed economiche. È l’idea più primitiva, che genera solo miti e figure fantastiche. Cosí abbiamo un generale come Makashov, che non sa neanche mettere insieme tre parole e usa con naturalezza la parola “zhidy” (“sporchi giudei”) entusiasmando il popolino e senza che il partito comunista lo possa scaricare, perché il partito non ha idee. L’idea di Makashov è “che la vodka sia piu’ forte e lo zucchero piu’ dolce”. Allo stesso modo si comportò Stalin nell’immediato dopoguerra, iniziando la campagna antisemita che unì la popolazione affamata, anche se Stalin non era affatto antisemita, anzi era circondato da ebrei. Doveva fare qualcosa, perché dopo la guerra era rimasto senza idee: il comunismo era un’idea viva in Occidente, mentre in Russia si era esaurita.

In cosa consisterebbe più precisamente il concetto di “idea russa”?

L’idea russa in realtà è multiforme: Solzenitsin ha la sua, anche se pure di stampo nazionalista, come l’avevano gli slavofili del secolo scorso, che erano sorti nella discussione con l’occidentalista filo-cattolico Chaadaev, uno dei più grandi pensatori che la Russia abbia conosciuto. Solov’ev aveva un’altra idea ancora, quella della “mondialità” della Russia, tutt’altro che nazionalista. Nel 1905, dopo la prima rivoluzione, l’organizzazione “Unione del popolo russo” diffuse un’idea nazionalista primitiva, del tipo di quella ricalcata oggi dal generale Makashov: distruggere gli ebrei. Si creò un enorme movimento antisemita, perché davvero i rivoluzionari del 1905 erano per lo più ebrei che non si sentivano ebrei, ma che conservavano un’idea messianica del proletariato. Anche Stalin era intriso di messianismo, che mutuava dalla sua formazione seminaristica. Molti rivoluzionari ebbero una formazione religiosa, da cui ritennero l’idea messianica e la scelta di servire gli oppressi. Il marxismo recuperava questi ideali, eliminando Dio.

Stalin: un ex seminarista divenuto comunista e massacratore. Come spiega l’enigma di queste personalità terribili?

Stalin rimise in piedi la Chiesa ortodossa ponendola come servitrice dello Stato, affidando ai migliori agenti del NKVD il compito di vegliare sulla Chiesa come un bene prezioso di famiglia. Come ho scritto nel mio libro su Stalin: alla Russia serve Dio e lo zar. E al contrario di quello che si potrebbe pensare Stalin usò la Chiesa non per giustificare il suo potere assoluto, da nuovo zar, ma perché voleva essere Dio. Al tempo della battaglia di Stalingrado egli in qualche modo tornò alla fede, ebbe addirittura delle visioni mistiche, fece fare processioni con icone a Leningrado e Stalingrado, nel 1946 diede un premio speciale di 100.000 rubli al metropolita di Gerusalemme. Uno degli intimi di Stalin era Shaposhnikov, che interpretava per lui i messaggi della Madonna; per questo Stalin lo fece capo di gabinetto e non lo tocco’ mai. Si spaventò di fronte alle voci e alle visioni, e pensò bene di sottomettersi, ma dopo la guerra, quando capi’ di aver vinto la guerra, tornò ad adorare la propria divinità. Il Patriarca da lui rimesso al suo posto doveva rendere culto allo stesso Stalin, il quale, a sua volta, nella sua dacia di Kuntsevo mise una lampada votiva davanti al quadro di Lenin, il dio-padre, proprio come davanti al tabernacolo.

Lei ci sta descrivendo Stalin quasi come un mistico invasato…

Stalin era convinto che dopo la seconda guerra mondiale il destino aveva affidato a lui il compito di iniziare la terza, quella definitiva, e realizzare così la sua missione divina di capo della religione marxista-leninista. Tutto nel comunismo sovietico infatti richiamerà i simboli cristiani: Lenin era Giovanni Battista, Stalin il Messia (vedi il film di Pavlenko “Il giuramento”, che Berja, capo del KGB, spiegò al capo come il giuramento di Gesù Cristo davanti alla tomba di Giovanni Battista). Marx era l’Antico Testamento, Lenin e Stalin il Nuovo. Solo il capo poteva spiegare i libri sacri, e nessun altro poteva commentare Marx e Lenin. Per chi la pensava diversamente occorreva l’Inquisizione. Il Mausoleo è un luogo di culto, un segno della vittoria dei bolscevichi sulla morte. E così la religione ortodossa doveva essere funzionale alla religione principale, quella incarnata da Cristo-Stalin, e il Patriarca Alessio doveva sostenere tutta questa mitologia senza discutere. Come succede poi a tutti i folli che si credono divini, Stalin morì da solo, giacendo per ore nel proprio piscio.

Come giudica il ruolo della chiesa ortodossa nella società russa?

La Chiesa ortodossa è ovviamente ancora segnata dal passato: i patriarchi e i vescovi erano legati a doppio filo al KGB, non potevano fare diversamente, anche se io penso che la loro dipendenza dal KGB si fermasse ai bordi dell’altare. La Chiesa ha resistito, è sopravvissuta, perché la Chiesa non può essere distrutta. Il cristianesimo, più che la stessa Ortodossia, non può essere distrutto…

E ci sono figure grandi nell’ortodossia, come quella padre Aleksandr Men’, assassinato nel 1990, un delitto a tutt’oggi avvolto nel mistero…

Sì, l’assassinio di padre Aleksandr Men’ fu una grande tragedia. Lui era veramente diverso: un sacerdoto molto colto, attorno al quale si era radunato un grande movimento di giovani. Soprattutto Men’ era un vero pescatore di anime, in particolare tra l’intellighentsija. Padre Aleksandr ha rappresentato il momento più alto dell’influsso dell’Ortodossia sulla vita della società, quando la Chiesa poteva diventare arbitro spirituale dei destini del popolo in questo decennio. Al contrario, il rifiuto di prendere parte alle celebrazioni per la sepoltura dei resti della famiglia dello zar, nel 1998, ha dimostrato la totale non incidenza della Chiesa. Mentre Eltsin alla fine ha capito, lui che da segretario locale del partito aveva fatto spianare la casa Ipatev a Ekaterinenburg, dove lo zar era stato fucilato.

È molto severo nei confronti della chiesa ortodossa…

In realtà ho molto a cuore il punto di vista della Chiesa, tant’è che sto progettando due interviste parallele con il Patriarca di Mosca e con il Papa, e spero di riuscirci. La Chiesa deve evitare in tutti i modi di farsi asservire e strumentalizzare dal potere; se si restaura la Chiesa di Stato, essa rischia di venire soffocata. Non è la Chiesa autoritaria e militante, legata al potere, che può salvare la Russia, ma il ritorno a Dio, al vero cristianesimo. Nekrasov disse che bisogna insegnare di nuovo ad amare. La Chiesa deve tornare a parlare di Dio, non dell’utilità e della moralità del cristianesimo, cercando di accattivarsi le simpatie dei non credenti. È inutile spiegare alla gente perché la Chiesa è utile. E se poi la Chiesa si mette a spiegare perché bisogna difendere la patria, diventa addirittura dannosa, come succede con alcuni ex-funzionari di partito che hanno messo la tonaca. Non bisogna scegliere per il bene della Chiesa, ma per la verita’. Non si può inculcare il bene battendo il pugno sul tavolo. La Chiesa, insomma, ha un compito educativo.

In cosa dovrebbe consistere concretamente questo ritorno all’“idea di Dio”?

Quando parliamo di idea russa e di cristianesimo russo, non dobbiamo dimenticare che la Russia è fatta in buona parte anche da non-russi, che coltivano altre tradizioni cristiane e altre religioni. Per questo preferisco parlare di “idea di Dio”, cercando il vero Dio in tutte le religioni, a partire dal cristianesimo. Il cristianesimo per me è come una freccia, che indica la direzione verso cui stiamo andando tutti. Nel nuovo millennio dobbiamo recuperare tutta la ricchezza della seconda metà del XIX secolo, della tradizione ortodossa russa, della cultura, dei nostri grandi scrittori, e portare tutto questo alla gente. Non solo: ci servono le ricchezze della cultura e del cristianesimo universale. Ho un grande interesse per il Papa, mi viene da pensare a uno dei più grandi pensatori russi di inizio secolo, Vjaceslav Ivanov, che visse a lungo a Roma e fu anche bibliotecario del Papa in Vaticano. Vedo una ricchezza del Papato che ha sapore di eternità, che ci può condurre nel futuro Ci sono nella Russia attuale personalità in grado di assumere un ruolo di leader carismatici?

La storia recente della Russia è povera di grandi personalità e di grandi carismi. Gorbaciov entrerà certamente nella storia, ma non per il suo carisma: è la dimostrazione che spesso lo zar è uno schiavo della storia, lui stesso non si rendeva conto della portata delle sue parole. Lenin e Stalin sapevano bene che il terrore è necessario ogni giorno, non solo all’inizio; era chiaro che il primo giorno senza terrore il regime sarebbe finito. Anche Eltsin è assurto a livelli di gloria quando è salito sul carro armato, che è scomparsa nel momento stesso in cui è sceso. Dopo di che è valsa legge del proverbio russo: gli uomini rimpiccioliscono, e i mascalzoni ingrassano.

Cosa vede nel futuro del suo grande paese?

Il futuro della Russia è imprevedibile. E folle come tutta la sua storia, come ciò che è avvenuto in questi anni. Una cosa è certa: la Russia non potrà mai assimilarsi alla cultura americana. È vero che la nuova borghesia russa fa i soldi con gli americani. Ma è altrettanto vero che questa borghesia si ribella all’immagine dei media americani che la rappresenta come una gang di mafiosi, che in realtà è in buona parte vero. L’intellighentsija russa è d’altra parte anch’essa delusa, perché quando non c’era la libertà gli intellettuali erano ai vertici della società, oggi, dopo l’apertura liberale, sono nei bassifondi. Per questo noi viviamo ora nell’epoca di riscoperta dell’antiamericanismo, che è una sorta di ritorno alla cultura russa presovietica, quando perfino Dostoevskij diceva che “gli americani sono tutti stupidi”.

Non è pericoloso questo pregiudiziale antiamericanismo?

No, non c’è nulla di preoccupante in questo atteggiamento. È un’attitudine ricorrente nella storia russa di questo secolo. Quando la nuova demonizzazione dell’America verrà completata, allora forse ricominceremo ad amare gli americani, perché in Russia il popolo ama tutto ciò che non è amato dal potere.

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