Calciopoli: niente di penale

Perché “Big Luciano” non è ancora stato radiato? E se il tribunale di Napoli di fatto ridimensionasse le tesi sulla famigerata “cupola” del pallone? La farsa di Calciopoli alla moviola di un cronista sportivo che non si è mai unito alla curva antimoggiana

Cinque anni fa, sul finire dell’aprile piovoso del 2006, nei pressi del weekend della Liberazione, cominciarono a filtrare, come da copione, alcune notizie su carte scottanti in mano alla Federcalcio. Secondo le prime indiscrezioni, nei cassetti di via Allegri, a Roma, ci sarebbero state le prove di un gigantesco scandalo che avrebbe sconvolto il mondo del pallone nostrano. Accadde anche allora come sempre in questi casi, come succede ancora oggi. Prima le anticipazioni, poi qualche ammissione, seguita da smentite categoriche degli interessati (a cui non credeva nessuno), quindi un primo blocco di intercettazioni pubblicate da questo o da quel giornale. Infine la valanga che ogni giorno si ingrossava sempre di più, una nuova telefonata, una mezza frase, una battuta, un aggettivo.

È il classico sistema della giustizia e dell’informazione italiana degli ultimi dieci anni. Sempre lo stesso schema: inchieste che basano l’ottanta-novanta per cento delle loro tesi sulle intercettazioni, sui tabulati, sui portatili che si agganciano di qui e di là, a questa o a quella cellula, sulle microspie. Eccetera. Se non ci fossero stati i signori Nokia e Motorola, nei tribunali non si muoverebbe praticamente foglia. A molti piacque, a posteriori, quell’intreccio con la Resistenza, i rimandi agli Sherman americani che risalivano la penisola scacciando i nazifascisti, alle immagini, in quell’aprile lontano, delle ragazze con i fazzoletti rossi, i calzettoni al ginocchio e il mitra in mano, l’aria apparentemente più pulita che si pensava di respirare, l’idea, insomma, di trovarsi in procinto di costruire un mondo nuovo, più giusto, più libero. Ovviamente, come tutte le metafore, anche questa aveva un fondo di stantio, di fasullo. Era l’inizio di quella che venne definita “Calciopoli”. Personalmente lo trovo un vocabolo insulso. Calciopoli significa città del calcio. Che c’entra con uno scandalo? È ovvio che il riferimento andava a Tangentopoli, ma almeno, in quel caso, il significato era corretto: Milano era, nell’immaginario popolare – anche nella realtà, per molti versi – la città delle tangenti. Per cui userò la parola solo questa volta, per far capire a tutti di che stiamo parlando.

Un po’ di sano revisionismo
Sì, la domanda è questa: di che cosa stiamo parlando? E soprattutto perché ne stiamo parlando? Perché, come su tanti altri aspetti (molto più gravi) della nostra storia, della nostra vita sociale, anche su questo è scesa la cappa dell’oblio, perché anche molti di coloro che allora pensarono di subire un torto, ora preferiscono lasciar perdere. Perché, in definitiva, dopo cinque anni, questo è un caso ancora aperto. Perché, malgrado la gran parte dei giornali sistemi la vicenda nei trafiletti (specialmente quando la bilancia processuale pende pericolosamente dalla parte dei presunti cattivi, come quando Bobo Vieri dichiara di essere a conoscenza di «un complotto»), la verità era (ed è) più sfumata di come è stata venduta alle masse. Dopo cinque anni che cosa è rimasto? Forse è giunto il momento di mettere un po’ d’ordine e di avviare un revisionismo senza ancoraggi di parte.

Riassunto delle puntate precedenti. Il 14 maggio 2006 la Juventus conquistò a Bari il suo ventinovesimo scudetto. Fu una festa grottesca. Sessantamila persone allo stadio, lustrini e paillettes in campo, i giocatori che festeggiavano alzando la Coppa. Luciano Moggi, direttore generale della Juventus dal 1994, era l’unico che aveva capito, grazie alla lunga militanza nell’ambiente, come sarebbe andata a finire. Infatti pianse e se ne uscì con una frase a effetto: «Mi hanno ucciso l’anima». Forse il verbo più giusto sarebbe stato “rubare”. Di certo gli “rubarono” la Juventus e, soprattutto, rubarono la Juventus a se stessa. La giustizia sportiva fu rapida e cruenta come d’abitudine e conosciamo tutti le sentenze dell’estate calda 2006. Neanche il tempo di goderci il quarto titolo Mondiale conquistato a Berlino e abbiamo ripreso a litigare: la vera Unità d’Italia. A pagare veramente, alla fine, è stata la Juventus (retrocessa in B – per la prima volta nella storia – con 17 punti di penalizzazione, scontati a 9) e i suoi principali dirigenti, Antonio Giraudo e Luciano Moggi, mentre tutte le altre società e tutti gli altri personaggi coinvolti se la sono cavata, tutti usciti alla grande dalla tempesta intercettatoria, tutti ancora qui, più o meno sulla cresta dell’onda, più o meno a posto con la coscienza e con i risultati.

Una lobby più efficace delle altre
La Juventus venne alleggerita di due scudetti (2004-2005, 2005-2006, quest’ultimo cucito con troppa fretta dal reggente Guido Rossi sulle casacche dell’Inter) e spedita in serie B. Ma le vere condanne non sono state queste. La Vecchia Signora venne “ringiovanita” e Roberto Beccantini, editorialista della Stampa, la ribattezzò con felice e sapida intuizione, «la signorina». Ma toglierle le rughe non fu un’opera di bene. La Juve è stata spolpata, azzerata, precipitata indietro: ne è uscita fuori quella di ora, una squadra-adolescente in perenne bilico tra un passato mai dimenticato e che stenta a tornare e un presente intriso di mediocrità. Per i tifosi della Juve è stato commesso il delitto perfetto e, anche se non fosse stato premeditato o organizzato a tavolino, come sostengono i supporter bianconeri, beh, non poteva riuscire meglio.
Poi c’è il lato giustizia penale e qui, ovviamente, dopo cinque anni siamo ancora in attesa della prima sentenza. A Napoli è in corso il grande processo che potremmo definire “contro Moggi e altri”. Antonio Giraudo, l’ad bianconero che con Lucianone formava una coppia inscindibile, ha preferito, forse sbagliando, il rito abbreviato: a fine 2009 il gup Eduardo De Gregorio lo ha condannato (insieme con gli altri tre imputati Pieri, Dondarini e Lanese) in primo grado a tre anni per il reato associativo finalizzato alla frode in competizioni sportive. Il processo che coinvolge Moggi e tanti altri personaggi della vicenda dovrebbe, secondo la volontà del presidente del tribunale, Maria Teresa Casoria, chiudersi entro l’estate, e pare che il giudice abbia prenotato l’aula anche di sabato.

Il problema è che la vicenda si è ingarbugliata, ingigantita, ha preso strade nuove e sorprendenti. Rivelando l’approssimazione o l’unilateralità dell’indagine di allora, come scrive un giornalista certamente non di parte e sempre molto ben informato, Fulvio Bianchi, nella sua rubrica “Spy Calcio” su repubblica.it: «È incredibile, e non si sa ancora perché gli investigatori abbiano trascurato intercettazioni che non sembrano affatto irrilevanti: ci ha lavorato, come detto, la difesa dell’imputato n.1, Moggi, che ha affidato i file al perito Nicola Penta. Migliaia di intercettazioni: alcune centinaia, quelle considerate più interessanti, sono finite nel processo penale e adesso sono state acquisite anche dalla procura federale della Figc».

Il 23 febbraio il Messaggero aggiungeva, sull’argomento: «Secondo i consulenti di Moggi ne mancherebbero 108 all’appello (…). Il perito del tribunale ha ammesso l’errore e gli sono stati concessi 45 giorni per completare la documentazione».
Che cosa sta succedendo? Semplicemente questo: Calciopoli in realtà non è mai esistita, non c’era una struttura segreta, non c’era una cupola. C’era, al massimo, una lobby che era più incisiva, nelle pressioni, di altre. Perché quello che è venuto fuori in questi anni e che si è cercato in tutti i modi di occultare adducendo i più svariati motivi (le mie telefonate sono meno importanti delle tue, io non dicevo nulla e tu invece sì, eccetera), è che tutti telefonavano a tutti, che designatori e arbitri passavano al telefono ore e ore a parlare con presidenti, dirigenti, addetti agli arbitri, tutti sperando di ottenere la stessa cosa: benevolenza, fischietti amici, direzioni super partes, perfino. Ma chiunque metteva mano alla cornetta voleva influenzare qualcuno. Non c’era nessuno immune dalla “telefonite arbitrale”. Poi c’era qualcuno che era più bravo degli altri nel blandire, nell’impaurire, nel conquistare, come Luciano Moggi, e forse qualcuno gli dava retta più degli altri.

Uno scandalo sulla parola
Perché tutto il processo, tutto lo scandalo, si basano unicamente sulle parole. Non ci sono scambi di denaro, non ci sono conti esteri, non ci sono rogatorie internazionali. Ci sono solo telefonate su telefonate e la verità, che apre un falla enorme nel sistema delle intercettazioni come strumento di prova, è che c’è qualcuno, da qualche parte, che decide quali intercettazioni usare e quali no. Questo è successo cinque anni fa, mentre un aprile piovoso declinava verso un maggio illuminato: sono state buttate in pasto all’opinione pubblica – e quando c’è di mezzo il pallone anche i più eroici garantisti si tramutano in efferati forcaioli – solo una parte delle intercettazioni, come hanno provato gli avvocati difensori di Moggi. C’era qualcuno che stabiliva: questa sì, questa no. C’era qualcuno che ha deciso che un’intercettazione in cui il figlio di Moggi, Alessandro, tentava di “circuire” una procace conduttrice televisiva, portandosela su un aereo privato a Parigi, telefonata senza alcuna rilevanza, né sportiva né penale, andasse divulgata. C’è chi ha deciso che alcune conversazioni tra i dirigenti indagati e alcuni giornalisti fossero tirate fuori dalle bobine perché avrebbero provato la contiguità della “cupola” con parte della stampa. In realtà, come nel caso di Giorgio Tosatti, scomparso un anno dopo i fatti, si voleva unicamente colpire un giornalista che aveva preso posizioni decise a favore della Juve e dei suoi dirigenti. C’è chi ha deciso che le telefonate di Massimo Moratti e di Giacinto Facchetti agli arbitri e ai designatori non avevano nessuna importanza e quindi non andavano rese pubbliche.

Quello che affermano in pochi, e quando lo dicono lo fanno sottovoce, è che la storia sarebbe stata diversa se le intercettazioni fossero uscite tutte insieme, che sarebbe stato bello vedere l’effetto che avrebbe fatto in quel clima da caccia alle streghe; che, anche se il tribunale stabilirà che esistono intercettazioni che provano un disegno criminale e altre no, sarebbe stato interessante leggerle tutte allora, tra maggio e aprile del 2006 e non a distanza di anni, quando la volontà d’oblio e la stanchezza intellettuale hanno preso il sopravvento; sarebbe stato forse sconvolgente scoprire che, a leggerle mischiate, a vederle sui giornali le une accanto alle altre, forse tutta questa grande differenza non sarebbe stata notata e tutto sarebbe stato giudicato come un’enorme sistema malato.

Io penso che questo sia un caso sportivo e non penale. Io penso che il processo di Napoli sia uno spreco di soldi pubblici e privati che, tra l’altro, tra riforme della giustizia e tempi della giustizia, rischia di finire in prescrizione. Se c’era un reato, si trattava di un reato sportivo e doveva rimanere nell’ambito delle Corti calcistiche. Sicuramente il sistema andava ripulito, andavano applicate vecchie regole, ne andavano create di nuove che rimettessero le cose a posto. Era necessario porre un freno a questa promiscuità sospetta tra arbitri e dirigenti, azzerare un sistema dove tutti erano amici di tutti, dove il confine tra controllati e controllori era inesistente. Andavano cambiati molti dirigenti e non solo due, non solo Giraudo e Moggi. Hanno pagato l’esagerazione, l’eccessiva sfrontatezza. Avevano una squadra fortissima, non avevano bisogno di stare lì a chiamare arbitri e designatori, a chiedere questo o quel fischietto, questa o quella benevolenza. Il paradosso è che la Juventus ha pagato per due campionati tra i meno determinati dagli errori arbitrali a suo favore, tra i meno sospetti della storia. Adesso si fa di tutte le erbe un fascio, ma quello del 1997-98 (scontro in area Iuliano-Ronaldo) e quello del 2001-2002, se vogliamo, potrebbero essere discussi molto di più. E, tra l’altro, l’arbitro De Santis, considerato una pedina nelle mani della “cupola” moggiana, nei due anni sotto giudizio ha arbitrato “contro” la Juventus, suscitando più di un malumore nell’ambiente bianconero.

A Torino qualcuno non dimentica
Insomma, il caso non è chiuso, anche perché a Torino ora c’è un presidente, Andrea Agnelli, che considera le sentenze di cinque anni fa una profonda ingiustizia e ha preso di petto, come non avevano fatto coloro che avevano gestito la transizione dopo il 2006, l’Inter e Massimo Moratti. Agnelli ha chiesto alla Federcalcio che, alla luce dei fatti nuovi emersi durante il processo di Napoli, lo scudetto del 2006 sia tolto all’Inter. La situazione è delicata. È vero che la giustizia sportiva è autonoma, ma che succederebbe se venisse pronunciata una sentenza di assoluzione per Moggi? È anche per questo che la proposta di radiazione dell’ex direttore generale bianconero giace in un cassetto da cinque anni. Se lo cancellano dal calcio e poi viene assolto in tribunale sarebbe un disastro per i federales.

Ecco qui, questo è il quadro. Anzi, la cornice, perché il quadro non si vede ancora bene, perché raschiando il primo strato di colore si scopre che c’è qualcosa di diverso. Per questo tenetevi forte: la giostra girerà ancora a lungo. Dopo aprile viene maggio, ma dopo maggio arriva giugno.

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