Benzina tartassata

Con la solita simpatica demagogia (accolta con sufficiente acriticità dalla stampa) il consiglio dei ministri vara un decreto legge che impone alle società petrolifere di offrire agli automobilisti l’opportunità di scegliere tra il gadget e una (lieve) riduzione del prezzo della benzina. Piccolo particolare: perché l’Italia è, dopo l’Olanda, il paese europeo in cui la benzina costa di più? Per le speculazioni dei petrolieri? No, per quelle dello Stato

Prendiamo un litro di benzina verde. Alla pompa costa, mettiamo, 1950 lire. Vuole sapere quanto vale veramente, qual è il costo di produzione? Tolga il 20 per cento di IVA, una delle più alte d’Europa (in Gran Bretagna è appena il 4), e siamo a 1.560 lire. Togliamo tutte le altre imposte nazionali e regionali, le “accise”, che ammontano a circa 1.100 lire, e ne rimangono 460. Da queste togliamo il margine di profitto del gestore della pompa, gli stipendi dei dipendenti, i costi di manutenzione, e arriviamo a 310 lire. E guardi che queste 310 lire comprendono i costi per la prospezione del giacimento, il suo sviluppo, l’estrazione del petrolio, il suo trasporto, la raffinazione e la distribuzione del prodotto raffinato. “. L’ingegner Renato Toniolo, oggi responsabile di filiale della Liquigas ma in un recente passato dirigente della Shell, verga i suoi numeretti su un foglio senza fare commenti, ma l’espressione del volto non lascia dubbi sul suo pensiero: se la benzina, soprattutto in Italia, costa sempre più cara, la colpa non è dei petrolieri, almeno in prima battuta.

Certo, sui numeri si può discutere. Secondo il Bollettino petrolifero dell’Unione Europea del 20 settembre scorso in Italia il prezzo della benzina al netto del gravame fiscale era, tre settimane fa, di 564,5 lire al litro. E secondo i dati in possesso della Regione Lombardia le “accise” sulla benzina non ammontano a 1.100 lire, bensì a quasi 1.250. Ma le cose non cambiano di molto: a causa del fisco, la benzina costa quattro-cinque volte di più di quello che vale, soprattutto in Italia. Mancano i dati più recenti, ma secondo l’ultimo annuario Eurostat disponibile, quello distribuito nel luglio ‘98, nell’Unione Europea l’Italia è il paese che presenta il più alto prezzo della benzina alla pompa dopo l’Olanda proprio a motivo dell’imposizione fiscale. Negli Stati Uniti, dove le tasse sui carburanti sono quasi nulle, con 1 dollaro (1.800 lire) si compra un gallone di benzina (quattro litri!). In Nigeria, quinto produttore mondiale di petrolio, con l’equivalente di 300 lire si compra un litro di benzina.

Se questo è lo stato dell’arte, si fa presto a capire cosa abbia innescato i recenti rincari. “In quelle 310 lire -spiega Toniolo- devono trovare un margine di profitto sia le compagnie petrolifere che i governi dei paesi in cui si trova il petrolio. Col barile a 13 dollari, quota a cui era precipitato il prezzo del greggio nell’aprile scorso, i margini erano ormai diventati troppo risicati. Quelli della Shell, per fare un esempio, nel 1998 erano diminuiti del 95 per cento rispetto a quelli del ‘97. Per non parlare dei bilanci dei paesi petroliferi, ridotti al lumicino. Così i paesi dell’OPEC hanno deciso di tagliare la produzione, e il prezzo del greggio è risalito. E l’aumento si è ripercosso sul prodotto finito: ecco perché oggi paghiamo alla pompa 50-70 lire in più che ad aprile”.

Giorgio Carlevaro, direttore della “Staffetta Quotidiana”, storico quotidiano specializzato in temi energetici che si pubblica a Roma sin dal 1933, conferma: “Gli attuali aumenti sono il risultato della politica dei paesi OPEC, che nel marzo ‘98 hanno deciso tagli alla produzione per 4,3 milioni di barili di petrolio al giorno, confermati nel marzo ‘99 e il 22 settembre scorso. C’era scetticismo su queste iniziative, perché in passato le politiche OPEC di contrazione dell’offerta non avevano quasi mai funzionato, a causa dell’”indisciplina” di alcuni paesi: Venezuela, Nigeria e Iran prima di tutti. Stavolta, invece, le cose stanno andando diversamente: i paesi OPEC stanno rispettando al 94 per cento gli impegni assunti, e i risultati si vedono; intendevano riportare il prezzo del greggio a 18-20 dollari, e sono arrivati a 22-23!”.

Se le cose vanno avanti così, il governo dovrà intervenire. Se la benzina continua a salire, sale l’inflazione, e con l’inflazione vanno sotto pressione i tassi di interesse e la politica di risanamento del deficit pubblico va gambe all’aria. Ma cosa dovrebbe fare? “Prima di tutto non deve fare quello che ha fatto sinora -spiega Carlevaro-. Un giorno dà la colpa ai petrolieri, il giorno dopo ai paesi produttori, un giorno evoca l’ipotesi di un ritorno ai prezzi amministrati, il giorno dopo conferma la sua fedeltà alla libertà dei prezzi, un giorno nega la possibilità di ricorrere alla leva fiscale, il giorno dopo dice che un intervento sulla componente fiscale è fattibile, un giorno dice che si potrebbe attutire la “carbon tax”, il giorno dopo alza le barricate, un giorno si allarma per l’inflazione, il giorno dopo dice che non c’è nessun allarme. Con queste dichiarazioni contraddittorie si rischia di innescare per davvero una spirale inflazionistica, con l’aumento di prezzi al consumo di generi che col petrolio non c’entrano”.

Le vie fra cui scegliere in fondo si limitano a tre: non fare nulla e sperare che il prezzo del greggio torni a diminuire; diminuire il carico fiscale sulla benzina; tornare al regime dei prezzi amministrati, praticato l’ultima volta fra l’86 e l’87. “La terza soluzione, se adottata, avrebbe effetti devastanti: l’industria petrolifera internazionale perderebbe ogni fiducia nei confronti dell’Italia. Perché prezzi amministrati vuol dire prezzi calmierati, cioè oneri fatti pesare sulle industrie imponendo una riduzione dei loro margini di profitto. Quando questo è stato fatto in passato, il risultato è stato l’esodo delle compagnie straniere, che hanno lasciato il mercato alla nostra compagnia di Stato, l’ENI, che in quanto ente di stato poteva accollarsi gli oneri. Ma oggi l’ENI è in via di privatizzazione e dunque deve agire in una logica d’impresa. E allora chi fornirà la benzina a prezzo calmierato?”.

La scelta logica sembra dunque quella di un abbassamento del prelievo fiscale. “Non è detto -risponde Carlevaro-, forse questa fiammata dei prezzi rientrerà e non ci sarà bisogno di cambiare nulla. Ma se pure non si vogliono diminuire le tasse sulla benzina, certamente questo non è il momento per aumentarle. E invece il ministro per l’ambiente Ronchi ha già detto che la seconda tranche della “carbon tax” verrà improrogabilmente applicata dal 1° gennaio. Potrebbe almeno farla slittare a marzo, quando i prezzi potrebbero raffreddarsi dopo la fissata riunione dell’OPEC e per via del minore consumo passato l’inverno”.

Attualmente le possibilità di intervento sulla parte fiscale del prezzo della benzina sono molto limitate. In Friuli Venezia Giulia la Regione ha proceduto alla diminuzione del prezzo del carburante nelle zone di confine con la Slovenia per combattere la concorrenza dei prezzi sloveni, che attiravano oltrefrontiera migliaia di “pendolari” del rifornimento e facevano perdere alla Regione Friuli e allo Stato italiano centinaia di miliardi di “accise”. Questo ha potuto fare grazie a un provvedimento collegato alla Finanziaria del ‘95 con cui lo Stato concedeva al Friuli di incamerare anche la quota statale dell’accisa oltre una certa soglia di benzina venduta nella Regione. Il gioco, un po’ complicato, funziona così: il Friuli dimezza la sua accisa sulla benzina venduta nelle zone di confine ai residenti, identificati con apposito tesserino informatizzato, recupera consumatori, e in cambio lo Stato rinuncia, oltre a una certa soglia, alla sua parte sul quantitativo “recuperato”. Il provvedimento potrebbe essere utilmente applicato in altre regioni di confine, a cominciare dalla Lombardia, ma c’è un problema: la Lombardia non è una regione a statuto speciale come il Friuli, e questo significa anche che l’accisa regionale è diversa: in Friuli su 1.250 lire di “accise”, 800 vanno alla Regione e 450 allo Stato; in Lombardia è l’esatto contrario: da quest’anno alla Regione vanno 450 lire e allo Stato 800. Questo significa che per rinunciare alla sua “accisa” la Lombardia ha bisogno di un meccanismo di compensazione più “spinto” di quello friulano. Altrimenti finisce che le finanze regionali finanziano quelle statali: una cosa di cui proprio non si sente il bisogno.

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