Ben, Olivia e noi. Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire

Gli ingredienti ci sono tutti: lui, lei, l’altra. L’altra – come ci si aspetta - è più giovane. Ma quel che non ci si aspetta è che sia anche la figlia dei due. È la storia di una famiglia

2949. Questo è il numero di immagini che il mio telefonino stamattina diceva di contenere. Ci è voluto una cifra così inquietante di foto per farmi scattare quella domanda che ogni volta viene sopraffatta dalla fretta del click: qual è la memoria che ogni giorno chiediamo alle nostre foto di custodire? Qual è il significato ultimo che vogliamo rendere immortale nella ripresa di quell’istante? 

Afferro la mia borsa e controllo gli ultimi scatti fatti con il mio cellulare. Vediamo.
L’ultimo è di oggi pomeriggio. Due figli seduti da bravi al tavolo della cucina, concentrati su guerre puniche e congiuntivo, tanto che – a ben vedere il contesto – stento a riconoscerli. C’è voluta la prontezza di chi immortala un fulmine, per cogliere giusto quell’attimo in cui i due non erano assorbiti dal lanciarsi pezzi di gomma e avanzi di tarallucci. La ripescherò fuori volentieri tra cinque anni: quando quasi sicuramente i due si chiuderanno in camera a lanciarsi grugniti da fare impallidire congiuntivi e non solo.
Seconda foto: l’ennesimo
selfie, quell’improponibile autoscatto che mi riprende in un’espressione così inopportuna, anche da inoltrare a mio marito il quale – in trasferta di lavoro – non mi vede da quattro giorni. Seppur impietosi, deformanti, innaturali, tutti questi selfie non li elimino. Se non altro, per ricordarmi – tra qualche anno – di quando ancora non esibivo il benché minimo capello bianco. Terza: la mia auto davanti alla farmacia di quartiere. Questo devoto ricordo è per domattina: affinché io non impazzisca, già alle prime luci, cercando disperatamente di rammentare dove diavolo avevo parcheggiato.
Quarta: un paio di stivali marroni in una vetrina del centro. Detto così, non rendo assolutamente giustizia alla loro unicità. Li ho fotografati non perché tornerò a comprarli. Ma piuttosto perché ricorderanno a me stessa che in fin dei conti per quest’inverno posso anche fare a meno di un paio nuovo di scarpe (del resto, sarebbe il quarto di quest’anno). Se – se con la penuria di parcheggi per Milano – posso tirare avanti senza un garage, sopravvivrò anche con un paio di stivali in meno…

Come alzo lo schermo del computer per scaricarle sull’hard disk, dall’ultimo sito aperto mi balzano all’occhio altre foto. Gli ingredienti ci sono tutti: lui, lei, l’altra. L’altra – come ci si aspetta – è più giovane. Ma quel che non ci si aspetta è che sia anche la figlia dei due. È la storia di una famiglia. La piccola Olivia, Ben e Ali. Lei, Ali, ha suo malgrado abbandonato Ben due anni fa, lasciandosi alle spalle un cancro e una bimba di poco più di un anno. Ora, lui decide di ricordarne la perdita scattando una serie di fotografie insieme alla bambina. Sono immagini peculiari: ritraggono padre-e-figlia nella stessa location (la nuova casa) e nella stessa posa in cui i due coniugi si erano fatti riprendere quando sembrava ancora avessero tutta la vita davanti. Malgrado le circostanze siano cambiate, la vita è continuata. Ora Ben si guarda alle spalle, con un desiderio umanissimo: quello di voler dare un senso di continuità all’amore che lo ha preso una volta per sempre e che ora vorrebbe catturare in un eterno ricordo.
E io, insieme a mio marito, ho delle foto che un domani – chissà mai – potrei andare a riprendere? Riafferro il cellulare e – almeno a colpo d’occhio – devo ammettere che sembra non essercene traccia.
Ahimè, devo scorrere all’indietro di 687 posizioni. Eccoci: maggio 2013, domenica mattina. Stiamo ballando insieme nella posa classica di un lento (ma sono pronta a scommettere che sotto strombettassero gli One-direction); io ancora in camicia da notte lunga e nera, lui stringendo fra i denti una rosa rossa, fresca fresca di festa della mamma. Indugio per un attimo al pensiero dello scatto parallelo: al posto del padre, mio figlio che stringe fra i canini il robusto gambo di un fiore. Oltre al tema di dover poi investire mezza eredità per far sistemare il suo apparecchio ai denti, l’idea mi crea un certo sconcerto.
Certo, un bambino non potrà mai rimpiazzare la madre o il padre e colmare allo stesso modo il vuoto lasciato, ma i piccoli sono pur sempre la misteriosa espressione del rapporto e della memoria che unisce i due sposi.
Torno alle figure così nitide e semplici di Ben e Olivia.
Dalla compostezza di quell’immagine, trapela una drammaticità che grida un desiderio di immortalità. Le figure – apparentemente misurate e serene – urlano in realtà la domanda di un senso, di uno scopo, di un fine ultimo oltre la morte.
Questi fermi immagine – seppur commoventi – non possono rispondere, ma aprono comunque l’interrogativo.
– “Papà, perché vale la pena venire al mondo, se poi si deve morire?”.
Come scrisse Gabriel Marcel, “Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire”.

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