Basta gettare fango sul nostro paese, dove mancano infrastrutture ma sopravvive l’umano

Un'inchiesta di Ezio Mauro e di Repubblica scredita ancora di più l'Italia. Per sottolineare l’inadeguatezza di un Presidente del Consiglio, si accetta anche di infangare un intero popolo, il vissuto personale e collettivo di una comunità. In Italia, invece, ci sono enormi differenze tra le regioni ma è ancora diffuso l'umano

La mia generazione, nata in provincia, era abituata al gioco goliardico, allo sberleffo irriverente, al cazzeggio fine a se stesso. “Chi la fa più lontano?”, così nei campi ancora incolti ci si esibiva in una prova, certo immatura, quanto innocua. Ora, mutuando questa prassi che tutti coloro nati nel secolo breve conoscono perfettamente, un certo giornalismo ha deciso di replicare certi vezzi giovanili. Il tono però è quello serio, edulcorato, contrito. Stiamo parlando del moderno intellettuale progressista, quello incarnato dalla penna sottile e certo dotta che imperversa sulle pagine di Repubblica.

“Chi getta più fango sul nostro Paese?”,
doveva essere questo il titolo del “trittico” che il quotidiano diretto da Ezio Mauro avrebbe potuto dare all’inchiesta (?) effettuata attraverso le parole degli italiani che vivono all’estero. “Un Paese incomprensibile e triste”, “cittadini senza coraggio”, “indifferenti”, “una barzelletta”, “un popolo di smidollati”, “sudditi”. Questi i commenti più generosi. “L’inchiesta” offerta ai lettori è stata eseguita attraverso una pratica molto comoda, certo moderna: è stato lanciato un appello e si sono attese le e-mail di questi italiani illuminati e pregni di coscienza.

Già sarebbe contestabile la modalità di una rappresentazione che prescinde dalla concretezza del contatto umano, ma anche prendendo per vera ogni parola pubblicata, è davvero singolare, il vezzo gioioso con il quale la delegittimazione del nostro Paese è stata accolta. Tutti sappiamo perfettamente il motivo di tale operazione: Lui, il demone, l’anomalia, il Caimano. Così, per sottolineare l’inadeguatezza di un Presidente del Consiglio, si accetta anche di infangare un intero popolo, il vissuto personale e collettivo di una comunità.

Il tutto con gioia, attraverso un compiacimento intellettuale che assomiglia ad una castrazione, quasi ad un godimento orgasmico. Per carità noi non ci scandalizziamo al pari della Contessa di Paolo Pietrangeli, per quei giovani che “del libero amore facea professione”, ognuno è legittimato a coltivare le proprie perversioni (sane) senza dover dar conto ad altri, ma in questo giochino al massacro esiste qualcosa che assomiglia ad una felicità contronatura. Si gioisce per l’insulto donato all’immagine del nostro popolo. Detto con chiarezza, non sono mai stato un cultore del Tricolore o della Patria, ma al cospetto del fango gettato sulla mia terra, ho sempre tentato una difesa, il tentativo “partigiano” di proteggere l’identità delle mie radici, di mio padre, di mia madre, del territorio che mi ha generato.

Proprio in questi giorni ho percorso più di mille chilometri,
da Varese a Trieste, Pordenone, Udine, Siena e ritorno, in compagnia di due coniugi, genitori di una bimba tra i protagonisti del mio libro “Vivi”, che vivono in Belgio per lavoro da oramai vent’anni. Con loro ho toccato le città del Nord Est e della Toscana, ho chiacchierato e discusso, incontrato altri uomini e altre donne del nostra Penisola. Insomma ho fatto qualcosa che per gli amici di Repubblica è oramai desueto, anacronistico, vecchio, forse anche sconsigliabile: quello di toccare con mano la realtà ed ascoltare con viva voce le parole dei nostri connazionali all’estero. Ebbene, spiace sconfessare verità consolidate e granitiche, ma la nostra comunità, il nostro Paese è molto più vivo e bello di quanto lo si vuole dipingere.

Esistono realtà che Mauro e Scalfari probabilmente neppure si immaginano.
Del resto, le notizie d’agenzia che si ricevono nelle redazioni non danno conto dei vissuti virtuosi, delle tante persone che ogni giorno edificano il nostro Paese con il lavoro (reale), con il volontariato, attraverso le associazioni no-profit, i gesti caritativi, la gratuità. Anziani, giovani uomini e donne che lontani dagli stereotipi dell’immaginario televisivo, coltivano la generosità dei rapporti umani, permettendo al substrato di questa Nazione di sopportare il fango, l’insulto, la delegittimazione, la melma.

La voglio dire con il racconto che i miei compagni di viaggio mi hanno voluto offrire.
Certo, l’Italia ha carenze che hanno la necessità di essere sanate, vive l’urgenza di riprendere slancio economico e di riconquistare i passi perduti. Il Belgio ad esempio, sembra davvero un luogo dove lo Stato è in grado di garantire ogni assistenza. Il cittadino può affidarsi ciecamente agli istituti che si occupano di sanità o riabilitazione. Ad una bambina disabile, come la loro figlia, non viene negato il diritto alla cura. Alla famiglia viene dato tutto il supporto possibile, anzi la mentalità dominante suggerisce proprio di lasciare che le disabilità vengano risolte alla radice, liberando la genitorialità di tutte quelle incombenze e fatiche che una malattia può causare alla socialità. In Belgio un figlio con malformazione può essere “eliminato” anche all’ottavo mese. Ovviamente per il bene delle famiglie.

Per le strade di Bruxelles non si vedono handicappati o anziani con badanti.
Ampia è la libertà di scelta: l’eutanasia assistita può essere praticata nella casa del paziente, oltre che negli istituti medici che la ammettono ed ora si sta pensando anche ad un “clinica della dolce morte”, sul modello olandese. Tutto perfetto? Forse, per i cultori necrofili del nichilismo. Manca solo un piccolo dettaglio, una quisquilia antica, una ritualità di altri tempi che l’Italia ancora coltiva con ostinazione, nonostante i venti contrari: quella socialità diffusa fatta di gesti quotidiani, di premura ed attenzione per l’altro.

Nel nostro Paese mancano infrastrutture,
esistono differenze sostanziali da regione e regione, ma sopravvive ancora l’unico elemento che può mantenere vivo un popolo: l’umano. Parola di italiani che vivono all’estero per lavoro da più di due decenni.

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