Ballando sul Titanic

Perché in Libano si plaude agli insorti e non si dà credito alle minacce di guerra del premier israeliano Barak

C’è comprensibile apprensione in Libano dopo la sollevazione del popolo palestinese e le evidenti difficoltà dello stato israeliano a reprimere con “l’eccesso di forza” stigmatizzato ufficialmente dall’Onu (e soprattutto dagli Stati Uniti, che per la prima volta non hanno posto il veto a una mozione che condanna il suo più fedele alleato in Medioriente). Dell’attuale crisi gli osservatori libanesi sottolineano tre aspetti: la novità del saldarsi del movimento nazionale palestinese con gli abitanti arabi entro i confini di Israele (circa un milione, un sesto della popolazione israeliana); la crisi della leadership di Arafat e l’emergere di un gruppo dirigente molto radicato in seno al popolo e legato alle organizzazioni islamiche Hamas e Jhad; l’effetto shock che ha avuto sul morale e l’orgoglio israeliani l’attacco compiuto da Hezbollah nel sud del Libano, dove tre soldati israeliani sono caduti prigionieri dei commandos islamici. I quali ora pretendono la liberazione di tutti i prigionieri politici arabi detenuti in Israele anche solo per informare il governo di Tel Aviv dello stato di salute dei loro militari. Gli analisti sostengono inoltre che nonostante le minacce di guerra ai palestinesi, Israele non correrà il rischio di buttarsi in un’aventura bellica che rischia di far sprofondare lo stato ebraico nel baratro di una guerra civile. E, dicono sempre gli osservatori, mai come oggi le pressioni internazionali su Israele sono tali che Tel Aviv dovrà dare prova di buona volontà, rilasciare i detenuti palestinesi, allentare la morsa della repressione, accettare la proclamazione della nascita dello Stato palestinese.

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