Autismo. Ecco la goccia che scava la pietra

Oggi è la giornata mondiale dell'autismo. Intervista a Lucio Moderato, padre del modello rivoluzionario Superability, che ha cambiato la vita a centinaia di persone

Il modo più semplice per raccontare qualcosa di molto difficile è procedere per esempi. Ed è sorprendente come per parlare dell’autismo ne bastino pochi. Per esempio, immaginiamo la nostra mente come una botte aperta, si riempie facilmente, senza fatica, lasciata in mezzo a un cortile sotto la pioggia si riempie da sola. La mente degli autistici no: è come quella di una damigiana, «può avere la stessa capacità di contenuto della botte, ma ha il collo stretto e per riempirla bisogna essere molto bravi: non possiamo procedere a secchiate, dobbiamo prendere la mira, agire progressivamente, costantemente, uniformemente. Goccia dopo goccia, come a scavare la pietra». In quarant’anni Lucio Moderato, psicologo e psicoterapeuta, ha incontrato migliaia di persone autistiche ed è considerato uno dei massimi esperti mondiali di questo disturbo. Direttore dei servizi diurni e territoriali della Fondazione Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone, docente all’Università Cattolica di Milano, insignito Cavaliere della Repubblica per meriti umanitari e scientifici dal presidente Sergio Mattarella a dicembre, Moderato è il padre del modello Superability, un approccio globale alle disabilità intellettive, ai disturbi pervasivi dello sviluppo e all’autismo; soprattutto, ha la pazienza della goccia che scava la pietra, anche quando racconta il suo mestiere.

Professor Moderato, tre anni fa il suo modello si è strutturato in un servizio chiamato Counseling Territoriale per l’Autismo, un progetto sperimentale che nel solo 2016 l’ha vista aiutare oltre 250 persone, di cui oltre due terzi bambini e adolescenti. Con risultati sorprendenti. Ma chi sono queste persone e come si racconta questo aiuto?
I casi di autismo sono in aumento, gli ultimi dati parlano di una incidenza in Italia di 1 su 80/120 persone. Questo perché fino a vent’anni fa moltissime forme di questo disturbo non venivano riconosciute o venivano scambiate per una sorta di psicosi. Oggi si è passati da una condizione di sindrome autistica infantile a una sindrome dello spettro autistico data da fattori di tipo genetico ma anche ambientale. Al momento sappiamo infatti che nella sindrome dello spettro autistico entrano in gioco sette geni che hanno una diversa influenza sulle diverse aree di sviluppo e che si combinano tra loro in modi e gradazioni differenti e quasi infinite. Immaginiamo una scodella di insalata e sette condimenti: la stessa scodella può essere condita in miliardi di modi diversi a seconda dei dosaggi e dei condimenti scelti. Non solo, questa predisposizione genetica è correlata a fattori ambientali, di carattere sociale, educativo, perfino di “ambiente” nel senso stretto del termine. In altre parole, posso avere una predisposizione genetica alta e non presentare questo disturbo, perché non ci sono stati fattori ambientali che l’hanno scatenato, così come posso avere una predisposizione genetica bassa, ma avere caratteristiche autistiche. Una bottiglia insomma mezza piena o mezza vuota traboccherà solo in base al numero di gocce che andranno a riempirla. Ecco, la bottiglia è il gene e le gocce sono gli stimoli ambientali. È qui che interveniamo noi.

Curando gli autistici?
L’autismo è una non-malattia e come tale non si può curare. O meglio: possiamo prenderci cura degli autistici ma dall’autismo non si può guarire. E per farlo dobbiamo ricordarci che questo disturbo ha diverse e infinite manifestazioni. Si dice che Mozart, Einstein, Steve Jobs fossero autistici: personaggi dall’intelligenza tanto straordinaria quanto settoriale, perché questa particolare condizione genetica può portare a grandissima rigidità di pensiero, così come può anche associarsi a disabilità intellettive assolute. Tra i due casi limite le combinazioni sono infinite, ma nell’ambiente, nel contesto di vita di queste persone, possiamo fare la differenza perché l’ambiente scatena l’apprendimento. E come? Nello stesso modo in cui funziona un computer: se io ho un hardware potentissimo ma un software che non va, il computer non funziona, io non funziono. L’hardware è esattamente come il cervello, un sistema rigido che non puoi modificare più di tanto, mentre il software, la mente, sì. Ecco perché da un approccio “curativo” dobbiamo passare a un approccio psico-pedagogico educativo e abilitativo. Scavare la pietra con la goccia: è questo il sistema di apprendimento dell’autistico.

La frase più diffusa su questo disturbo è che gli autistici vivono in un mondo tutto loro.
A differenza nostra non processano in modo parallelo le informazioni, ma in modo seriale, una alla volta, e soprattutto hanno un pensiero che funziona per immagini. Sono sensibilissimi a luce, rumori, al contatto fisico, per questo si proteggono da un ambiente che è per loro troppo invasivo, troppo carico di stimoli che non riescono a controllare. Così chiudono le porte al mondo, perché hanno bisogno di diminuirne l’intensità: in quella damigiana deve infatti entrare una goccia per volta altrimenti trabocca. Per questo gli interventi devono essere lenti, progressivi e inesorabili.

Quando cominciate a intervenire e in che modo?
Proprio perché dall’autismo non si guarisce, la nostra fascia di utenza va dalla culla alla bara. Oggi il disturbo viene diagnosticato entro i tre anni di età del bambino, ma la diagnosi è difficile perché le caratteristiche dei bimbi a sviluppo tipico sono quasi uguali a quelle dei bimbi autistici. Bisogna quindi essere bravi a fare una diagnosi differenziale, distinguendo ciò che è autismo da ciò che non lo è. Prima questo avviene, prima portiamo a casa i risultati. Il modello Superabilty consiste infatti nell’insegnare ai bimbi il prima possibile tutte le abilità che servono alla loro esistenza. Non solo quindi capacità di tipo relazionale ed educativo, ma anche, e soprattutto, quelle che occorrono alle attività di base: lavarsi, vestirsi, mangiare da soli, infilarsi le mutande, insegniamo insomma ai bimbi a cavarsela, li abilitiamo come possiamo all’esistenza. Poi ognuno si giocherà la partita della vita a suo modo, ma le abilità sono fondamentali. Tutto ha inizio con una valutazione individuale, funzionale per capire ciò che il bimbo sa e non sa fare: quello che non sa fare diventa l’obiettivo abilitativo. Sulla base di questo, costruiamo un programma educativo personalizzato e lo andiamo a realizzare nei contesti di vita.

Cioè andate fisicamente voi a casa e a scuola?
Certo, le “terapie” vanno fatte soprattutto in casa e a scuola. Altrimenti tutto diventa artificiale, artificioso, non uniforme. Noi andiamo nei luoghi naturali, le abilità specifiche, come mangiare, vestirsi e lavarsi, le seguiamo in casa, quelle cognitive a scuola e via discorrendo. Il difetto dei servizi che si occupano di autismo sta nel fatto che ciascuno lavora per conto suo. Noi invece restiamo nei luoghi del bambini, abbiamo una regia unica, facciamo in modo che gli attori educativi, i genitori prima di tutto e gli insegnanti, diventino competenti e possano a loro volta insegnare e versare la goccia giorno dopo giorno. Se una mamma e un papà diventano così, competenti e capaci di insegnare, si guadagna tanto tempo e si risparmiamo tanti soldi.

Voi avete ottenuto risultati significativi nel 99,9 per cento dei casi, realizzando migliaia di interventi domiciliari, ambulatoriali, centinaia a scuola e altrettanti nei luoghi di lavoro. Di che risultati si tratta?
Potrei citare il caso di F, tre anni, pieno di stereotipie, non stava mai fermo, sua madre era disperata. Oggi legge, scrive ed è più bravo dei suoi compagni di classe a farlo. La sua mamma è serena e fiera di lui, è fiduciosa perché ha capito che il figlio può imparare e quindi gli insegna come fare. Ecco cosa facciamo: non possiamo rendere la vita dei bimbi “normale” ma possiamo offrire loro “normali” occasioni di vita. D. invece era un bimbo autistico non verbale che aveva difficoltà enormi, anche lui pieno di stereotipie, non c’era verso per i genitori di riuscire a vestirlo, lavarlo, nutrirlo. Dopo due anni mangia tutto, va all’asilo, si veste e lava da solo. S. era invece una bimba considerata gravissima, non parlava, passava il tempo distesa per terra a masturbarsi: oggi va all’asilo, e per la prima volta, il giorno della festa del papà, è riuscita a pronunciare «papà». E poi ci sono gli adulti che hanno imparato a relazionarsi con le persone.

Perché ha scelto questo mestiere?
Io lavoro in questo campo dal 1976, le cose che facevo 40 anni fa le faccio anche adesso, solo che 40 anni fa venivo considerato un addestratore di cani del circo, oggi mi chiamano il guru dell’autismo. Sono sempre lo stesso, sono affetto da tetraparesi spastica fin dalla nascita e tutto quello che ho imparato dalla mia vita l’ho usato per la mia professione. Mi sono messo in gioco, ho imparato la pazienza della goccia che scava la pietra dalla mia condizione e dalle persone di cui mi sono occupato. E consiglio ai miei collaboratori di fare sempre lo stesso.

Foto Ansa

Exit mobile version