Aspettando una Tatcher, godiamoci i rapinatori, i Basisti, Jane Melandri e Cita

Lettere

Caro Direttore, Le scrivo a proposito del “vademecum” 100 volte liberi di pensare comparso sul n. 44 di Tempi, che ho molto apprezzato.

Innanzitutto, perché in modo equilibrato semplifica una questione maledettamente complessa (e lo è certamente se ciò che servirebbe è addirittura la modifica della costituzione); in secondo luogo, perché dà le ragioni (e convincenti, mi pare) di un impegno che non è certo per “addetti ai lavori”, toccando uno snodo assolutamente centrale della vita civile del del futuro del nostro Paese.

Mi permetto però di segnalare un punto assolutamente centrale della questione che non viene toccato da nessuno perché troppo scottante e “politically uncorrected”, nella speranza che anche attraverso il vostro giornale si apra un dibattito su questo nodo di fondo che impedisce qualsiasi seria riforma della scuola.

Voi chiedete sostanzialmente, e io concordo, più mercato (e meno stato), la concorrenza può migliorare la qualità della scuola. L’utente sceglie la scuola migliore (dal suo punto di vista) e ci sono scuole statali (dobbiamo ipotizzare) che rimangono senza studenti perché nessuno le sceglie. Ora, cosa succede agli insegnanti di quella scuola? Se il mercato funzionasse questi verrebbero licenziati dalla scuola che ha perso studenti e cercherebbero lavoro in altre scuole che dovrebbero essere libere di scegliere se prenderli o meno (dal momento che dalla loro qualità dipende la domanda di iscrizioni degli alunni). Ciò però non è oggi possibile, e molto difficilmente ipotizzabile.

Ne discende perciò che è scorretta l’affermazione che fate al n. 53: se lo Stato desse alle famiglie i 4,5 milioni che costa uno studente nelle scuole private non risparmierebbe, ahimè, gli 8-9 milioni che costa lo stesso studente nella scuola pubblica, perché, come affermate correttamente al n. 27, il 91% di questi 8-9 milioni vanno spesi in stipendi agli insegnanti statali. Lo Stato risparmierebbe al massimo 1 milione (il 9% che non va in stipendi) e avrebbe un esborso netto aggiuntivo di 3,5 milioni per ogni studente che dalla scuola pubblica, potendo scegliere veramente, passasse alla scuola privata.

Questa spesa aggiuntiva non ce la possiamo permettere ameno che, Dio che ne scampi e liberi, la scuola privata non sia costretta ad assumere gli insegnanti che nella pubblica non hanno più alunni (Castagnetti docet!).

Questo, mi pare, è il vero nodo della scuola italiana che conta 1.100.000 dipendenti che succhiamo 72mila miliardi tutti gli anni, e di cui una buona quota dovrebbe essere “mandata a casa”, liberando risorse per gli insegnanti “bravi” e per la libera scelta degli alunni.

Ma questo non si può dire! Occorrerà discuterne però, prima o poi, per non essere velleitari.

Grazie per l’attenzione.

Con viva cordialità.

Alberto Bramanti (Varese) Caro signor Bramanti, lei pone la domanda e propone anche la (corretta) risposta. Una vera scuola pubblica (come su queste pagine abbiamo documentato raccontando dei due diversi modelli adottati in Olanda e in Gran Bretagna) presuppone una sana competizione dalla quale possano emergere, anche tra la classe docente, i migliori a scapito dei peggiori, che sarebbero, come dice lei, “mandati a casa” (come tra l’altro fece Margaret Tatcher con i minatori e Ronald Reagan con i centomila scioperanti aeroportuali,). È vero che sarà ardua l’impresa di riconvertire alle ragioni della società e del libero mercato un paese abituato a vivere da decenni all’ombra dei riti antifascisti, delle partecipazioni e del lavoro statali. Ma non esiste che per garantire il posto di lavoro a tutto il milione e passa di dipendenti della scuola si debba continuare a sacrificare la libertà di educazione e la qualità dell’istruzione dei nostri figli. Il governo D’Alema non lo farà mai e la Cgil si gongola al pensiero di poter continuare a celebrare ogni anno le funzioni religiose contro la parità scolastica? Fa niente, aspettando un Reagan o una Tatcher , è meglio rimanere oppositori di un Governo e antagonisti di una Cgil, piuttosto che diventare nemici della realtà.

Carissima Redazione, leggo con gioia le notizie della mobilitazione in favore di una libera educazione in una libera scuola, ma mi chiedo: cosa hanno partorito decenni di governo democristiano? non può essere tutto frutto di tre anni di governo delle sinistre! cosa è servito insistere a suo tempo come se fosse un dogma, che bisognava votare un unico partito per l’unità dei cattolici e che ogni tentativo di cambiamento DOVEVA essere fatto al suo interno? è questo il risultato di tanta sopportazione e obbedienza? Alberto Speroni, giunta via Internet Per la leggerezza, miopia e, talora, la pavidità dimostrata in tanti anni di governo, possiamo e dobbiamo mettere addosso alla Dc tutte le croci che vogliamo. Ma a onor del vero bisognerà anche restituire alla Dc l’onore dello scudo di cui si fregiava nel simbolo e ricordare il non piccolo particolare che i democristiani si trovarono a governare un Paese in cui era (e in parte lo è ancora) presente il più forte e radicato partito comunista occidentale. Tanto per esemplificare, il Paese in cui quel tale che nel 1968 voleva “abbattere” il sistema borghese dell’istruzione si trova oggi a essere ministro della Pubblica Istruzione, e in cui quell’altro che da segretario della Fgci aprì al “movimento” insurrezionalista del 1977 è diventato capo di governo. Oggi – come ha osservato su questo giornale il nostro eccelso collaboratore Lodovico Festa, (che di storia patria se ne intende, essendo egli stato una delle migliori teste pensanti dell’ex-Pci) – i D’Alema e i Berlinguer si comportano come due rapinatori di una banca che diventati direttori della stessa dicessero: “Da quando ci siamo noi non si rapinano più banche”. Volete che in tre anni le sinistre facessero quella parità che non hanno fatto in trent’anni i democristiani? Ma certo che no. Anche perché gli unici democristiani rimasti al fianco dei direttori di banca di oggi sono quegli stessi che ieri esercitavano il doppiolavoro di direttori e di Basisti dei rapinatori.

Cari amici, volevo farvi notare quella che mi sembra una “chicca” del Ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri.

In occasione della cerimonia per la riapertura della Basilica dedicata a S. Francesco ha dichiarato che il restauro della Basilica è un “modello” affinché l’intero paese “diventi un unico, grande cantiere dell’utopia”, come è stato quello di Assisi.

Un servizio del Tg1 (h. 13,30) ha diffuso queste parole pronunciate dal Ministro all’intero popolo italiano.

Utopia significa non-luogo. Forse il Ministro si riferiva ai cantieri di “Alice nel paese delle meraviglie”? Buon lavoro.

Alfredo Spaggiari, Milano La graziosa Jane Melandri non è vittima di Tommaso Moro, ma dei beni culturali del suo segretario di partito Tarzan Veltroni. Chissà come è triste Cita.

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