Appendere il campione al chiodo

Ah i suoi gol, ah i suoi assist, ah il suo monumento. Per gli dèi del calcio è sempre più difficile lasciare il campo. Da Totti a Del Piero, deludere i follower è dura

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Più che arte, uscire di scena è artigianato, come direbbe il super cuoco Massimo Bottura quando lo definiscono artista. Un campione di calcio è un po’ come un cuoco, un liutaio, cioè un grande professionista e dovrebbe capire quando la maestria non è più quella di un tempo. Dovrebbe capire che uno come lui non può campare a mezzo servizio. Ma l’artigianato dell’addio è un mestiere in via d’estinzione, non lo insegna più nessuno. Soprattutto in un’era come questa, di post verità taroccate. Trenta, quarant’anni fa l’oblio scendeva naturale. Ora è difficile lasciare quando hai milioni di “follower” che ti adorano, pronunciano il tuo nome e della tua “resistenza” – agli anni, alla sorte, agli allenatori, ai dirigenti che ti vogliono pensionare – hanno fatto un monumento.

Il mio colonnello, quando facevo il militare (per i giovinastri di oggi il servizio di leva è come il telefono fisso o la macchina da scrivere: si sono estinti con i dinosauri) sosteneva: comandare è meglio che fottere. Il verbo “comandare” si può estendere: non significa solo dare ordini, ma avere visibilità, fama, prestigio sociale, anche soldi, ovviamente. Certo, c’è anche un lato umano, privato, un piacere personale nell’allontanare l’addio. L’ultimo grande vecchio che ha aperto un dibattito sull’uscita di scena è Francesco Totti. Deve mollare o no a 40 anni suonati? A guardare per quanto viene utilizzato in campionato dovremmo dire di sì. Sembra uno di quelli che chiamavano “straniero di Coppa”, infatti ha giocato di più in Europa League. Ma forse Francesco ama stare lì, allenarsi, sedere in panchina e vedere il campo dalla prospettiva da cui lo guarda da quasi 25 anni. E poi a tutti piace Sanremo. Dopo che sei uscito di scena, a meno che non ti inventi qualcosa, a Sanremo non ti invitano più.

I vecchi non se ne vogliono andare e io li capisco, sono vecchio anch’io. Poi l’Italia in questo senso è embedded con i vecchi: questo è un Paese per vecchi, però vincenti, o rompicoglioni, che si fanno notare, che fanno incazzare un allenatore o un segretario di partito. Già. Massimo D’Alema è il prototipo di quello che ritorna sempre, si è rimesso in circolo cavalcando il no al referendum. Uso D’Alema non a caso: il campione al tramonto, prospera e allontana l’uscita di scena se la sua squadra barcolla. Parafrasando Moretti: mi si nota di più se la mia squadra va bene o se va male? Se va male, non c’è dubbio, basta che tu fai un gol ogni tanto. Lei va alla deriva e tu risplendi. La tua incidenza è quasi nulla, ma tu hai il passato dalla tua.

Facciamo un bell’applauso ad Alex
Esemplare la storia di Alex Del Piero. Nel 2006 quando si aprono le cataratte intercettatorie su dirigenti bianconeri, arbitri e quant’altro, Alex è di fatto una riserva. Nei due anni di Fabio Capello vive nelle retrovie. Ha dalla sua il pubblico, ma non allenatore e dirigenti, spietati e pragmatici. Capello considera Alex la terza scelta, dopo Trezeguet e Ibrahimovic. Il 23 gennaio del 2005 c’è il punto più freddo (come la domenica) dei loro rapporti: Alex parte in panchina, poi si scalda per mezzora, ma alla fine, causa un acciacco di Nedved, il tecnico deve usare un centrocampista e Del Piero torna mestamente a sedersi. Sebbene la Juventus vinca (2-0 al Brescia) e salga a più 5 sul Milan, si elevano ululati verso Capello. Se nel 2006 non fosse accaduto quello che è accaduto, forse Del Piero sarebbe andato via. Invece vive una seconda giovinezza juventina, disfa i bagagli e resiste fino al 2012. Sarebbe anche durato di più, se non avesse fatto infuriare il vendicativo Andrea Agnelli con il celebre video messaggio (Alex è stato il primo calciatore in Italia a padroneggiare il web) in cui, a proposito del suo contratto, diceva: «Firmo in bianco». Agnelli l’avrebbe cacciato subito. Lo convincono ad allungargli di un altro anno il contratto e a farlo transitare nel nuovo stadio. Del Piero viene congedato dal presidente durante l’assemblea dei soci nell’autunno 2011. Due giorni prima, a Verona, la stampa unita lo esalta come «unico a salvarsi nella prova mediocre della squadra contro il Chievo» (se la squadra va male mi si nota di più). Riparte subito la tiritera del contratto (vedi Totti): allunga, non allunga? Agnelli si presenta in assemblea e apre i lavori così: «Facciamo un bell’applauso a Del Piero, al suo ULTIMO anno con la Juventus».

La dimenticabile League Indiana
Fino a quando Del Piero stava alla Juventus resistendo all’uscita di scena, tifosi, giornalisti e avversari volevano tutti che giocasse ancora. “Un posto per Alex qui c’è sempre”. Come no. Del Piero trova posto in Australia, poi le ultime partite le gioca nella dimenticabile Super League Indiana, tra Mumbay e Goa, in compagnia di altri colleghi sull’orlo di una pensione nervosa: Trezeguet, Materazzi, Anelka, Ljungberg. Più che un ultimo domicilio conosciuto, come il polar francese con Lino Ventura, ultimo stipendio conosciuto.
Il guaio è che dell’uscita di scena si parla molto di più ora che quarant’anni fa. Ora un campione, specialmente quelli identificativi, che hanno vestito sempre la stessa maglia, che hanno dato tutto a una sola squadra, che hanno segnato tanti gol, giunti alla curva finale della carriera, scatenano dibattiti che una volta non c’erano.

Nelle ultime settimane alcuni grandi calciatori hanno riconquistato le prime pagine di giornali, tv e siti web: Gigi Riva, premiato dal Coni a Cagliari, Roberto Baggio che, fresco cinquantenne, è andato a festeggiare il compleanno nelle zone del centro Italia colpite da una serie infinita di calamità, e Arthur Antunes Coimbra, famoso come Zico, invitato a Udine per una passerella. Zico in Friuli è ancora molto amato, ma non abbastanza da convincere gli ultrà ad accettare di nominare con il suo nome la “curva Nord”. A “Giggirriva”, alla sarda, o “Rombo di Tuono” eroe eponimo di Gianni Brera, la carriera si accorciò per via di una serie maledetta di infortuni, alcuni causati da interventi criminali. Nel 1976-77 era ancora in rosa al Cagliari, ma non giocò mai. Finì in sordina.

E se la Juve non avesse vinto?
Riva, come Giancarlo Antognoni alla Fiorentina, è stato uno dei cosiddetti giocatori “bandiera”, fedeli a una squadra, resistenti alle profferte delle grandi del Nord, Juventus, Inter e Milan. Squadre dove, invece, Roberto Baggio è stato per poi finire la sua carriera al Brescia nel 2004. Sia alla vigilia del 1998, Mondiale in Francia, sia nel 2002, prima di quello in Giappone e Corea, Baggio fu al centro di un vasto movimento di opinione che lo voleva arruolato a tutti i costi. Le sue medie realizzative erano elevate. Il commissario tecnico Cesare Maldini, nel 1998, non ebbe timore di metterlo in competizione con Alex Del Piero, mentre Giovanni Trapattoni, nel 2002, preferì non turbare la concentrazione di Francesco Totti. Perché il problema di un grande campione sull’orlo di un’uscita di scena è anche questo: c’è sempre un campione, più o meno giovane, o un equilibrio di squadra, più o meno stabile, che va a scompaginare.

Il problema è che capire come/quando uscire di scena in uno sport di squadra è più difficile. Dovresti capirlo da solo, prima che arrivi qualcuno come Andrea Agnelli a licenziarti. Alla fine di quella stagione Del Piero partì ma arrivò il primo scudetto di Conte. E se la Juve non avesse vinto nulla? La vera questione è: un campione come Totti o Del Piero quanto rende? Lo so, è una domanda cinica, specialmente se si parla di giocatori che “hanno dato tutto”. Sempre meglio decidere da soli di uscire di scena. Ricordo che, alcuni anni fa, rovistando in archivio trovai un resoconto del derby di Milano del 6 novembre 1977, Inter-Milan 1-3, doppietta di Ruben Buriani, quel giocatore milanista biondissimo ed elettrico. In quell’articolo si descriveva il crepuscolo di Giacinto Facchetti, grandissimo capitano dell’Inter che, in quella partita, subì l’avanguardismo del giovane e biondo milanista. A fine stagione, il “Cipe”, come lo chiamava Helenio Herrera, mollò il calcio giocato prima che glielo dicessero gli altri.
Io penso che il calcio sia uno sport fantastico e che i fuoriclasse lo esaltino, ma, tornando al rapporto costi-benefici, un campione sul filo della pensione è più costoso che produttivo. Ah i suoi gol, ah i suoi passaggi, ah il suo monumento, ma la realtà è che il suo contributo reale alla fine viene ridotto dai danni collaterali. Stress in quelli che vogliono emergere, disturbo del manovratore (le domande, le critiche, gli insulti della famigerata rete), cioè del tecnico che passa il suo tempo a rispondere sull’utilizzo del campione al tramonto e deve contemporaneamente gestirlo. E poi i tifosi non sono sempre così riconoscenti come dicono. Paolo Maldini se ne andò dal Milan insalutato ospite sia per la società, sia per parte dei tifosi. Gli ultrà gli guastarono l’addio con bordate di fischi perché Paolino, figlio di Cesare, non amava sedersi nelle brigate dei buontemponi, come recita il salmo, cioè non frequentava i tifosi, specie i più beceri.

La regola di Nek
Quindi? Come dice uno dei nostri filosofi di riferimento, Nek, «se una regola c’è, non la chiedere a me». L’artigianato dell’uscita con stile è qualcosa che non si impara, si ha. Comunque God save the football. Le altre discipline sportive sono peggio. Negli ultimi quarant’anni abbiamo assistito, attoniti, all’emissione di troppi biglietti di andata e ritorno: da Mark Spitz a Michael Phelps nel nuoto (passando per Ian Thorpe), da Pietro Mennea nell’atletica a Lance Armstrong nel ciclismo, per non parlare di uno stuolo di pugili. C’è qualcosa di peggio di non capire quando è l’ora di uscire di scena. È pensare di poter rimettere piede sul palcoscenico.

@Perri57

Foto Ansa

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