Andreas Lubitz. Ritratto di un uomo di cui non sappiamo niente

L’hanno accostato a tutti i mostri e i pazzoidi della storia. Ma di Andreas Lubitz non sappiamo nulla. Solo che si è schiantato con un Airbus e i suoi 149 passeggeri. Senza un perché

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Sono stati numerosi i tentativi di capire e di spiegare il gesto abissale di Andreas Lubitz, il copilota di ventisette anni della Germanwings che lo scorso 24 marzo ha dirottato un Airbus contro le Alpi francesi, portando con sé nella morte 149 persone fra passeggeri e colleghi. Le cronache hanno suggerito soluzioni contenute comprensibilmente fra l’ovvio e lo sbrigativo: era depresso, era stato lasciato dalla fidanzata, stava subendo un distacco della retina che gli avrebbe compromesso la carriera, seguiva cure psichiatriche e consumava psicofarmaci, era divorato da un delirio di onnipotenza diagnosticato sulla base di una promessa pronunciata anni fa: «Un giorno tutto il mondo conoscerà il mio nome». Si sono letti colloqui con psicanalisti ondeggianti fra la prudenza di chi poco sa e l’obbligo professionale di saperne qualcosa, compromesso che li ha condotti a parlare di ansia di immortalità, senso di inadeguatezza sociale, e se non ci siamo distratti mancava solamente l’aereo come simbolo fallico. I commentatori più eruditi hanno suggerito paralleli con lo Iago di Otello, con il Raskolnikov di Delitto e castigo, con l’Anders Breivik di Utoya, con Mohammed Atta e le Torri gemelle, con i vari pazzoidi che entrano nei campus o nei cinema americani con fucili a pompa e fanno stragi a casaccio. Si sono prodotte analisi storiche e filosofiche a partire dall’Illuminismo che decentrava Dio e si è realizzato nella Rivoluzione francese e nella negazione della sovranità monarchica per diritto divino, nel nichilismo che nel suo vertice, Friedrich Nietzsche, proclama la morte di Dio («e lo abbiamo ucciso noi!»), nelle idee assassine del Novecento, e cioè il nazismo che cerca una rinnovata spiritualità pagana e panteista e il comunismo rigidamente ateo che divinizza anche dopo morte, imbalsamandoli ed esibendoli sulla piazza Rossa, i suoi sommi capi. Si è rianalizzato il disastro dell’Occidente annoiato o immemore delle radici giudaiche e cristiane, sperso in un individualismo confuso e sterile, neghittoso, preda di fondamentalisti e follie.

Il problema è che Andreas Lubitz non è riconducibile a niente di tutto ciò.

Il suo atto gelido e silenzioso sembra essere una novità assoluta nella storia del delirio umano. Lo è all’apparenza perché il copilota non si è curato di chiarire o di rivendicare, è andato fino in fondo e basta. Ha fatto perdere lentamente e progressivamente quota all’aereo perché – si presume – nessuno si rendesse conto del destino cui era diretto, una sterilizzazione della morte già alla base dello Zyklon B, il gas a riduzione di sofferenza usato dai nazisti con gli ebrei (parallelo insinuato qua e là e subito respinto come stereotipo offensivo). Lubitz ha lasciato di sé la normalità agghiacciante del respiro regolare registrato dalle scatole nere. Stop. Ogni analisi o teoria è basata su frammenti del suo passato, una foto sotto il Golden Gate, meta prediletta dei suicidi; una cartella clinica; il ricordo di un amico o di un compagno di podismo; lo studio del traffico online del computer di casa; i risultati dei test attitudinali di Lufthansa; le testimonianze dei genitori e della fidanzata. E poi, di nuovo, il respiro regolare in cabina, non una sillaba in risposta alla torre di controllo o al capitano che urlava di disperazione oltre la porta bloccata. Non sappiamo niente. Ci restano solamente ipotesi senza fondamento e una certezza: Andreas Lubitz è andato a schiantarsi con l’Airbus di cui era ai comandi curandosi di non lasciarci un solo perché.

Le migliori intenzioni
Dunque Lubitz non è Iago, in William Shakespeare simbolo del cinismo omicida per brama di potere. Tantomeno è Raskolnikov, lo studente di Fedor Dostoevskij che ammazza la vecchia usuraia da cui si sente preso per il collo. Fra l’altro vengono in mente le pagine di Alberto Moravia secondo il quale il Raskolnikov del delitto è perfetto per la dottrina della Rivoluzione d’Ottobre, il Raskolnikov del castigo e del pentimento è pessimo: nel socialismo sovietico dell’usuraio ci si deve liberare e punto, in Dostoevskij niente, nemmeno l’odiosa pratica dell’usura giustifica l’assassinio. Eppure c’è qualcosa di morale anche nell’accezione comunista, senza dubbio una morale distorta, obbrobriosa, ma l’usuraio è il nemico simbolico dell’uomo nuovo cui tendono il leninismo e lo stalinismo. Siamo sufficientemente cresciuti da comprendere che le peggiori nefandezze sono compiute con le migliori intenzioni. Persino Adolf Hitler tendeva al bene, un bene tutto suo, delirante, ma un bene. L’Olocausto è l’abisso della pazzia europea, uno sterminio perpetrato dai tedeschi con la volenterosa e vile collaborazione dei popoli conquistati nel convincimento che un mondo senza ebreo (cioè, di nuovo, l’usuraio) sarebbe stato un mondo più degno d’essere vissuto. Pol Pot, uno che nella classifica della ferocia novecentesca starebbe molto in alto, deportava la sua gente nelle campagne e faceva ammazzare chiunque portasse gli occhiali, indizio di intellettualità, per rifondare e ricondurre al bene una società corrotta.

La distruzione senza sbocco
Inutile andare avanti. Stiamo parlando di regimi che del nichilismo hanno fatto religione e scempio. Almeno con il nichilismo nel significato superficiale che gli attribuiamo oggi. Un amico mi ha mandato una pagina da Padri e figli di Ivan Turgenev, romanzo del 1862 contenente una delle prime definizioni di nichilista, «un uomo che non si inchina dinnanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato». Noi, dice uno dei personaggi, «distruggiamo perché siamo una forza», e la forza «non rende conto a nessuno». Il superuomo (o oltre-uomo) di Nietzsche è un essere emancipato da ogni autorità, specialmente religiosa ma non soltanto, che l’autorità se l’è data da sé abbindolando gli sciocchi e i superstiziosi: va alla ricerca di valori e di un ordine nuovo verso cui guidare l’umanità alla quale il cristianesimo non basta più. Lubitz invece guida verso la distruzione senza sbocco.

Così parlò Zarathustra in una delle opere fondamentali di Nietzsche, ma anche il poema sinfonico di Richard Strauss con cui si apre uno dei capolavori di quel grande nichilista che fu Stanley Kubrick, 2001. Odissea nello spazio. Ricordate? Due gruppi di scimmie si contendono una pozza d’acqua. Una scimmia impugna un osso e colpisce l’avversaria sino a ucciderla. Ha scoperto le armi. Si sente invincibile. È il male insito nell’uomo, la volontà di annientare, dall’osso si passerà alla clava e alla lancia fino all’atomica, ci si sterminerà con noncuranza e ogni pretesto, Dio o la patria o la liberazione, sarà buono per la vanagloria dei potenti. Nella scena finale, l’astronauta ha un nemico inatteso, il computer Hal 9.000. È la sfida ultima della specie umana ormai pacificata. Vinta quella sfida, l’astronauta viene risucchiato in una realtà parallela, entra in una stanza dove si vede morente e poi si vede rinascere. L’uomo si è rinnovato da sé, estrema tensione del nichilismo. Non è vero che l’assenza di Dio porta all’autodistruzione. Per l’ateo e umanista sommo Albert Camus l’uomo senza fede in Dio aveva una sola strada: la solidarietà fra simili.

Una nuova categoria di male
L’ateismo del Novecento ha prodotto disastri ma non un’aperta e incondizionata misantropia, addirittura cieca come parrebbe quella di Lubitz. Nemmeno di Emil Cioran c’è il minimo soffio in Lubitz. Cioran era ateo e nichilista, termine che non amava ma nemmeno rifiutava, considerava l’esistenza un’oscena insensatezza, libri e libri di disperazione riassumibili in una sentenza: «Tutto è inutile, il vuoto sarebbe bastato». Trovava il suicidio una via percorribile. Ma era intriso di una compassione sconfinata per quell’esserino sperduto nel tempo e nello spazio più inconcepibili, e il pessimismo esasperato non gli impedì a settant’anni di innamorarsi di una professoressa tedesca di filosofia, Friedgard Thoma; accolse quell’innamoramento – sentimento antiscettico per eccellenza – come l’ennesima contraddizione alla quale siamo sottoposti dall’assurdità della vita. Non c’è strage, per quanto insensata e crudele, priva della minima connessione con la realtà. L’11 settembre e Charlie Hebdo hanno spiegazioni elementari. Breivik fa macello di ragazzi in Norvegia per salvare l’Europa dal declino agnostico e testimoniare la necessità di un ritorno al cristianesimo. I ragazzi che sparano nei college americani sparano nelle loro scuole, contro i loro professori e i loro compagni, dentro il loro mondo. Anni fa un tizio vestito da Joker sparò in un cinema dove si stava proiettando Batman. Beh, campi aperti anche per la psicanalisi da dopo cena. Sono azioni. Sono interventi attivi. Ma Lubitz? Lui non è attivo, è passivo: abbassa l’aereo e addio. Non parla. Non ha niente da dire. Non ha un obiettivo politico o religioso o filosofico. Se intende protestare contro l’Europa, contro la Germania, contro la secolarizzazione, contro le tasse o contro Batman evita di mettercene a parte e rende la protesta illeggibile. Non conosce i passeggeri. Non ha contro di loro animosità le più astratte. Non c’è odio né amore, né bene né male. Non ha un raptus. Plana lento e leggero verso l’orrore con respiro regolare. Se vogliamo iscrivere Lubitz a una categoria della cattiveria e dell’insondabilità umana, quella categoria non l’abbiamo ancora inventata.

@mattiafeltri

Foto Ansa

Exit mobile version