Ancora un carteggio tra professori su rivoluzione e fascismo

Lettere

Caro direttore, a proposito del dibattito tra Gianni Mereghetti e Carlo Borsani sull’identità del fascismo, c’è un punto che mi sembra possa essere chiarito: cosa si deve intendere per “rivoluzionario” e cosa si debba intendere per anti-rivoluzionario, o “reazionario” che dir si voglia.

Se essenziali alla prospettiva rivoluzionaria sono il classismo come elemento cardine della dinamica sociale e la società senza classi o monoclasse come obiettivo finale; se, d’altra parte, l’alternativa “reazionaria” a tale impostazione è la società a più classi che fa leva sull’idea di unità della nazione, allora è difficile considerare Mussolini e il fascismo significativamente collegati alla rivoluzione, al socialismo, a Marx. Avrebbe ragione Borsani a dire che “Mussolini non potrà mai essere marxista perché nemico della lotta di classe”. E avrebbero ragione anche gli anti-fascisti a stracciarsi le vesti all’idea di rinvenire radici marxistiche in Mussolini. Per l’uno e per gli altri, pur con valutazioni opposte, il periodo socialista di Mussolini sarebbe solo il tributo pagato al momento storico da una identità caratterizzata fin dagli inizi da un amore alla nazione, cioè da un’identità “reazionaria” (uso le parole “rivoluzionario” e “reazionario” solo per indicare due orientamenti nettamente distinti e inconciliabili, al di là di qualsiasi connotazione valutativa). Tale lettura, fatta da destra o fatta da sinistra, conferma comunque l’interpretazione “classica” per la quale fascismo e rivoluzione sono separati da un irriducibile antinomia.

A tale interpretazione, però, si oppongono alcuni fatti, il primo dei quali consiste nella storia stessa del passaggio di Mussolini dal socialismo al fascismo, dalla classe alla nazione, ed ha ragione Borsani a dire che la questione andrebbe “ripresa a parte”. Anche a una lettura un po’ scolastica e superficiale degli avvenimenti sembra di poter affermare che tale passaggio non ha avuto il carattere di una conversione con le relative abiure, ma piuttosto di uno sviluppo che non ha bisogno di mettere in discussione le basi dell’appartenenza all’area rivoluzionaria.

Il “travaglio” per l’abbandono del neutralismo e l’approdo all’interventismo, nel 1914, si può spiegare come il frutto di un’analisi realistica della situazione: il sostanziale cedimento dei partiti socialisti europei alle necessità della patria, la convinzione che una presa di distanza dal popolo in armi e dai suoi sacrifici avrebbe potuto screditare irreparabilmente, specialmente in caso di vittoria, la causa rivoluzionaria… ragioni, queste, non meno “socialiste” di quelle del socialismo ufficiale che, forse, nel conservare le mani pulite vedeva la speranza di diventare, un domani, dopo le distruzioni e i disinganni della guerra, polo di riferimento per il popolo, secondo la nota logica del “tanto peggio, tanto meglio”. E che entrambi questi tipi di ragioni avessero delle chance lo dimostrerà il dopoguerra. Dopo la guerra – è vero – Mussolini raduna intorno a sé gli scontenti, i frustrati, in una prospettiva di unità nazionale anticlassista e antisocialista. Qui sembra proprio di poter parlare di una conversione, di un passaggio all’altro campo. Ma, ed è il secondo fatto, c’è l’esempio di Lenin, che per fare la rivoluzione in Russia ha fatto assurgere i contadini (contro l’ortodossia marxista) a soggetto rivoluzionario, insieme agli operai; che in quegli anni con la Nep fa nascere addirittura una classe borghese, per i superiori interessi della rivoluzione; ci sarà non molto tempo dopo Stalin – ed è il terzo fatto – che con il suo “socialismo in un paese solo” sembra addirittura assumere la prospettiva nazionalistica dentro l’orizzonte rivoluzionario.

Ma cos’è allora la rivoluzione? Non è l’esito naturale della storia di un soggetto naturalmente rivoluzionario, la classe operaia, ma è il frutto dell’intelligenza o dell’azione di una elite o addirittura di un uomo di genio (il superuomo di Nietzsche?) il quale identifica di volta in volta il soggetto rivoluzionario che deve supportare la sua azione, il cui scopo è la creazione di una società “felice” e “perfetta” in quanto totalmente determinata dalla volontà e dal pensiero illuminato che la progetta e la costruisce (e qui il cinismo forse solo verbale di Mussolini – i duemila morti per sedersi al tavolo della pace – e quello fattivo delle purghe staliniane e dei lager sovietici può essere significativo del rapporto tra l’intelligenza direttrice e la massa).

Se, dunque, l’essenza della rivoluzione non è il classismo operaistico ma l’utopismo totalitario, allora la scelta che Mussolini fa per il ceto medio e per la prospettiva nazionalistica non intacca la sua appartenenza all’area rivoluzionaria e due conclusioni sembrano logiche:
– fascismo, nazismo, stalinismo possono essere visti come tentativi diversi di realizzare una prospettiva rivoluzionaria, che nei primi anni del secolo la storia mostrava in crisi, forzando la mano alla storia;
– diventa lecita e doverosa una ricerca sui germi di totalitarismo impliciti in tanta parte della cultura moderna, dall’illuminismo in poi.

P.s. L’articolo di Mereghetti mi sembra confermi tale lettura. Può tuttavia essere utile la precisazione sul significato di “rivoluzione”.

Luciano Barbaglia, insegnante di scuola media superiore, Pavia Mi permetto due semplici osservazioni su questo nuovo e interessante contributo che offre elementi utili nella prospettiva di fare piena luce sulle origini del fascismo:
1) il fascismo è uno dei frutti del processo storico che nasce con l’illuminismo e matura negli ultimi due secoli di storia: la caratteristica di tale processo è l’eliminazione progressiva di Dio come orizzonte dell’esistenza umana per sostituirvi lo Stato, “di tutti i gelidi mostri il più gelido” come giustamente lo ha definito Nietschze. E’ per questo che se si fa un’analisi reale delle diverse ideologie che hanno calcato la scena nel secolo diciannovesimo e ventesimo si scoprono delle consonanze impressionanti: non c’è allora da scandalizzarsi se crollano i muri che erano stati appositamente costruiti per tenere ben distinti Marx, Lenin e Stalin da Hitler e Mussilini. Distinzioni fittizie perché questi grandi ideologi provengono dalla stessa matrice, la ragione illuministica, che hanno fedelmente servito secondo accentuazioni solo storicamente diverse.

2) Giusta la sollecitazione del lettore a precisare il termine rivoluzione. Il Nuovo Zingarelli definisce rivoluzione un “violento, profondo rivolgimento dell’ordine politico-sociale costituito, tendente a mutare radicalmente governi, istituzioni, rapporti economico-sociali e simili”. Le rivoluzioni moderne e contemporanee mutuano da questa definizione un unico elemento, quello della violenza, in quanto dal settecento a oggi non vi è stato nessun rivolgimento radicale, ma solo diversi tentativi di realizzare la stessa idea di stato. Si può così dire che nell’età moderna e contemporanea non vi è stata nessuna rivoluzione, o meglio la stiamo ancora aspettando e potrà scoppiare solo con uno stato che faccia un passo indietro rispetto alla vita degli uomini e dei popoli.

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