AmeriCina

E' LA VERA FRONTIERA DELLA GLOBALIZZAZIONE DA CUI PUÒ USCIRE DI TUTTO. UN PIANETA PIÙ PROSPERO (SE AVANZANO LE LIBERTÀ ). O UNA CATASTROFE PLANETARIA. PASSAGGIO A PECHINO, CAPITALE ASIATICADEL MONDO NUOVO

«Vedi, solo qualche mese fa, lì c’era un ristorante, qui una casa, là una strada a una sola corsia». Erica ha sposato un cinese. Che ha lasciato per tenersi la Cina. Ha trentacinque anni, Erica. Per dieci ha studiato e vissuto qui a Pechino. Per tre ha abitato in una provincia remota. Due anni li ha passati a convincere operai a lavorare per 44 euro al mese (come da minimo contrattuale previsto dalla legge) invece che per 30 come accadeva fino al 2003, quando le paghe erano gestite dal partner cinese dell’azienda italiana di componenti elettronici delocalizzata nella campagna dello Zhejiang. “Benvenuto in Cina”. Basta un ideogramma (“cai”, “demolire”) appeso a un vecchio compound. E un quartiere sparisce sotto le ruspe per far posto a una giungla di grattacieli. Basta un avviso delle assemblee popolari locali. E un milione di contadini lasciano case e villaggi per far posto a un lago artificiale. Basta un ordine del procuratore. E uno studente o un prete finiscono per vent’anni in prigione. Non c’è paese al mondo che cresca così in grande, così in fretta, così tumultuosamente irrelato dalla vita e dalle procedure democratiche occidentali. Benvenuto in Cina. Quando la mezzanotte rintocca anche nell’unico anfratto senza edifici che interrompe la lunga sequela di locali notturni sulla Hou Hai Jiu ba Jia, la via dei box, la Lotus Lane di Pechino. Benvenuto, fratello. è mezzanotte. Il cantiere è aperto. Su una sedia, col busto piegato sulle ginocchia, un operaio dorme col suo caschetto giallo in testa. Dorme, l’accovacciato. Sotto una luce fioca che rivela l’uomo. Come Gesù nel quadro di Caravaggio.

ITALIANI ARMATA BRANCALEONE
Benevenuti in Cina. Volo Lufthansa Monaco-Pechino. Volo diretto e giornaliero. Come succede con Air France e British Airways. Ma non con Alitalia. Che per andare a Pechino, una volta ogni tre dì, passa da Tokyo, fa scalo, e poi atterra nella capitale cinese viaggiando a ritroso. Già qui si capisce perché l’anno italiano in Cina (2006) butta male. Per l’anno celebrativo della Francia, il governo parigino ha investito in eventi economici, culturali e mondani qualcosa come 44 milioni di euro. L’Italia, ad oggi, per mettersi in mostra nelle metropoli del gigante dell’economia globalizzata, propone un budget di 2 milioni. Ma l’Italia c’è, in Cina. Come? Sì, certo, con le missioni economiche governative che realizzano joint-venture e poli produttivi locali. Missioni come quella (certo più remunerativa per il made in Italy del dignitoso viaggio di Ciampi dell’anno scorso, risoltosi in uno spot per la Fiat e nell’appello a togliere l’embargo alle armi per la Cina) svolta nel 2003 dalla Regione Lombardia di Roberto Formigoni. Ma di norma è ancora lo stile armata Brancaleone a prevalere. Con un’ambasciata di feluche tranquille, sportelli bancari gioviali e imprese che corrono a delocalizzare per tagliare i costi del lavoro, per prendere soldi e scappare, cedere know-how o vendere imprese che non ce la fanno più a stare sul mercato con prodotti che i cinesi copiano, riproducono (con contraffazioni che fanno gridare vendetta davanti al Wto) e immettono sul mercato a prezzi stracciati. Basta andare al mercato di Xiu Shui Jie, sulla via della Seta, per vedere e acquistare a pochi euro capi dei più famosi brand di tutto il mondo.

TAROCCARE IL TAROCCABILE
«Il futuro è la Cina e l’Europa da una parte, Usa e Giappone dall’altra». Questo succederà attorno al 2020 secondo la persona che si presenta come gallerista e intellettuale emigrato in Germania. Il problema islam in Europa? «Ve lo risolveremo noi». I cinesi sono persone semplici solo in apparenza e, probabilmente, il popolo più napoletano che c’è. Superstiziosi con i numeri e gli spiriti. Fantasiosi nel taroccare tutto il taroccabile (ne sa qualcosa l’imprenditore brianzolo che produce cerniere, ne vendeva un milione di pezzi a Sydney, tutto d’un tratto nemmeno un ordine, come mai? cosa succede?, manda un venditore in Australia e realizza che l’acquirente continua ad acquistare le stesse cerniere, solo fabbricate in Cina e vendute a prezzi ridicoli da una società con sede negli Usa, dove all’australiano era stato fatto credere dai cinesi, che avevano intercettato il prodotto e cannibalizzato il logo di fabbrica, che si fosse trasferita l’azienda brianzola).
Inguaribilmente romantici e grandi nell’ospitalità al forestiero (quando lo straniero non arrivi con lo sprezzo del colonizzatore). Solo di una cosa i cinesi che hanno un business o una qualche posizione sociale da difendere non amano proprio parlare. Di politica? No, di religione.

“IO PENSO SOLO FELICITà”
Vivian, 28 anni, che dice «io voglio solo felicità» (who zhi yao kuai le), viene da un qualche piano nobile di Pechino, usa gli sbiancanti Lancôme per il viso ed è titolare di una società che organizza eventi. Nel caso, l’operazione Picasso in Cina. Ekber, 25 anni, che dice «io penso solo felicità» (wo xiang kuai le), viene da una città al confine col Kazakhstan, usa una chitarra spagnola che sogna di suonare in un locale di flamenco a Madrid (ma per adesso strimpella per due-tre euro a nottata in un locale della Lotus, nel caso, offrendoci una bella canzone e una buona tequila). Non è certo il sontuoso Kunlu di Pechino (di proprietà della polizia) il Lily hotel di Hangzhou, a due ore di volo dalla capitale. Ma fa piacere lo stesso prendere un thè con una persona che si presenta come professore di filosofia e sociologia alla prestigiosa università Tongji di Shanghai e farsi massaggiare i piedi in compagnia di altre sei. «Insegnamo anche Agostino, Tommaso, Anselmo». Davvero? Vero che il Papa verrà in Cina l’anno prossimo? «La caratteritisca del partito socialcomunista cinese è di ascoltare sempre le parole del nostro Premier». Il bello della Cina è che se si è onesti è un paese a scanso di equivoci retorici. Non ho mangiato la lingua d’anatra in carpione, ma mi è sembrato di capire a ogni bigliettino da visita che mi è stato allungato, sempre con due mani, sempre con un inchino (è un’offesa non ricambiare, «nessun problema, qui si lavora anche a mezzanotte», e a mezzanotte giravo già col mio bel bigliettino di scambio), che non c’è esotismo che tenga nell’assaggio di questa immensa torta che brulica di frenesia uscita da cinquemila anni di storia.

MAO è COME HITLER
I cinesi si vantano molto della loro storia millenaria. Per cui, tanto per dirne una, gli ideali estetici o il senso dimesso, remissivo, confuciano della vita dovrebbero essere identici oggi, duemila o cinquanta anni fa. In effetti i cinesi sono stati un popolo contadino fino alla fine del secolo scorso e hanno attraversato immani sofferenze fino a ieri (non parlategli di Mao, al cinese, nemmeno ai piani alti, «Mao è come Pol Pot e i due sono uguali a Hitler. Ma perché, secondo lei, tutti i guai vengono dalla Francia?», questo che si confida e ci interroga è una persona che si presenta come il Direttore della seconda divisione affari internazionali del ministero della Cultura). I cinesi sono morti a milioni in guerre imperiali fino ai primi anni del ‘900. E hanno continuato a morire a decine e decine di milioni nelle guerre e nei genocidi comunisti fino agli ultimi anni del ‘900. Nonostante tutto ciò, e nonostante le bizzarre politiche demografiche imposte dal regime totalitario (con Mao le famiglie dovevano essere numerose per dare braccia alla terra e soldati all’armata rossa, con i successori le seconde bambine dovevano essere abortite e la legge divenne quella del figlio unico), i sopravvissuti si sono moltiplicati fino agli attuali miliardo e trecento. Che sembrano trovare solo nella teoria confuciana dell’eterno ritorno e della reincarnazione ragioni di rassegnazione alla frusta del tempo. La cui percezione in Cina non è stata nutrita dal pensiero di un Eraclito o di un Heidegger. Ma dall’esperienza molto elementare del passaggio dalla padella dello Stato centralizzato guidato per oltre duemila anni con crudeltà ferrigna dall’imperatore, alla brace dello Stato centralizzato guidato con glaciale disumanità dal Partito comunista.

STATI UNITI? UN “BEL PAESE”
La popolazione non sa ancora nulla dei viaggi di Bush a Pechino e conosce poco e male cosa c’è al di là del muro rituale celebrato in pubblico dai sacerdoti della burocrazia del partito. Però, oggi, almeno nelle grandi città, anche il popolino minuto si accorge delle Porsche Cheyenne che circolano con targa dell’esercito. Vede il detestato giapponese riempire gli hotel. Assapora piccoli piaceri che vengono dall’Occidente. Tanto per dirne altre due: l’ideogramma cinese di “Stati Uniti d’America” si pronuncia “Mei Guo” e si traduce “Bel Paese”. “Coca Cola” si dice “Ke Ka Ke Le”, ovvero “gustoso e felice”. La novità dell’ultimo decennio di storia cinese è tutta qui: in quella tanto (in Occidente) disprezzata globalizzazione che ha spalancato le porte dell’universo mondo a un popolo che non era mai uscito dall’isolamento e dall’oppressione di massa. E così, tutto d’un tratto, dal romanzo di cinquemila anni di storia, la bella novità è che cominciano a spuntare protagonisti della narrazione che dicono “Io”.

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