Alberto Cisterna, dalla procura nazionale antimafia alla polvere. «Io, magistrato nel tritacarne giudiziario»

Le bugie di un pentito, lo sputtanamento mediatico, la carriera distrutta. Poi l’archiviazione. Ma la battaglia comincia ora. «Riapriamo il caso e torniamo in aula. Voglio indietro il mio onore»

Alberto Cisterna è uno dei nomi più noti tra i pubblici ministeri impegnati nel contrasto alla mafia: dopo una lunga esperienza in Calabria, nel 2011 era arrivato al posto di viceprocuratore nazionale antimafia, braccio destro di Piero Grasso. Il 17 giugno 2011 Cisterna si è trovato indagato per corruzione per le accuse di un pentito. A poche ore dal primo interrogatorio, ha appreso dalla prima pagina del Corriere della Sera che la notizia dell’interrogatorio, in realtà, non era poi così segreta, né il nome di chi lo accusava né di cosa lo accusava.
Dopo due anni di indagini, lo scorso settembre, con un faldone di quasi 600 pagine, i pm di Reggio Calabria hanno chiesto l’archiviazione delle accuse a Cisterna, e il gip l’ha decretata il 4 dicembre scorso. Ma il 4 febbraio Cisterna, caso raro nella storia giudiziaria, ha chiesto la riapertura delle indagini: «Perché il decreto di archiviazione è per me inaccettabile, la ricostruzione dei fatti in esso contenuta è per me inaccettabile», spiega a Tempi lo stesso Cisterna.

Cosa non le va bene? Con le accuse archiviate, in fondo, si è dimostrato che era tutto falso.
Mentre chiunque sarebbe portato a festeggiare la chiusura di un procedimento, io ritengo che le 80 pagine che motivano il decreto di archiviazione, come le oltre 500 pagine della richiesta presentata dalla procura (che non ho mai letto), diano una ricostruzione errata dei fatti. Mancano una serie di prove che ho acquisito da tempo e che non ho potuto esibire, perché non mi è stata fatta leggere nemmeno la richiesta del pm, pur avendola richiesta formalmente e invano per almeno due volte.

Cosa ricorda di quel 17 giugno 2011, il giorno dell’interrogatorio?
Io ero stato formalmente iscritto nel registro degli indagati solo il 23 maggio 2011 (le indagini erano state avviate intorno al gennaio 2011), e solo allora avevo saputo dell’interrogatorio. I miei ex colleghi di Reggio mi avevano convocato in maniera “riservata”, con un invito a comparire mandatomi in due buste chiuse, per maggiore sicurezza. L’ipotesi di reato era la corruzione: l’accusa mi pareva così ridicola, che mi avvicinai al giorno dell’interrogatorio senza neppure preoccuparmi di rintracciare un difensore. Mi curai di trovarne uno giusto la mattina del 17 a un’ora circa dall’interrogatorio fissato in Procura nazionale, e fu l’avvocato a farmi scoprire il lungo articolo sul Corriere della Sera, in prima pagina, con le citazioni del verbale delle dichiarazioni del pentito. Mi chiedo chi, al posto mio, può pensare che sia una coincidenza, ossia che sia casuale che questa notizia sia uscita proprio quel giorno. Questo è stato il motivo dell’interruzione di ogni dialogo con gli inquirenti, e ho continuato a difendermi con durezza, ma solo nel processo e denunciando ogni anomalia. Dopo un anno e mezzo di indagini viene fuori una richiesta di archiviazione di oltre 500 pagine (dicono i giornali), sulla quale non ho potuto interloquire, perché non mi è stata fatta consultare prima della decisione del gip. Penso che avrei dovuto avere il diritto di dare le mie spiegazioni al gip prima che decretasse l’archiviazione. A me importa che l’archiviazione raggiunga almeno un punto tollerabile di mediazione tra la verità storica e la ricostruzione processuale. Quella contenuta nel decreto non lo è.

Perché?
Nel contenuto l’archiviazione reca una serie di illazioni, supposizioni e ricostruzioni sul mio conto che, se mi fosse stata data la possibilità di interloquire come ho richiesto formalmente, sarei stato in grado di smontare pezzo per pezzo. In questo anno e mezzo è venuto fuori di tutto e di più: intercettazioni nascoste, verbali di pentiti di cui non sapevo nulla, trascrizioni di intercettazioni che non corrispondevano ai verbali redatti dalla polizia giudiziaria, manipolazioni di date. Perciò ho fatto una scelta radicale, ma anche l’unica possibile, chiedere la riapertura delle indagini e comunicare che non mi opporrò a una richiesta di rinvio a giudizio: lo chiedo io, andiamo davanti a un tribunale, di fronte ai giudici di cui ho assoluta fiducia e rispetto. Non vedo come un cittadino si possa liberare da una situazione di sospetto come quella costruita a piene mani su di me, con un’interpretazione unilaterale e, quindi, sbagliata dei fatti. Mi sfuggono le motivazioni di un atto che giudico abnorme, una vera e propria sentenza “in contumacia”, quando io non sono né contumace né latitante e aspettavo di vedere le carte e difendermi.

Cisterna, a che tipo di indagini è stato sottoposto?
L’accusa era di essere stato corrotto da un tale Luciano Lo Giudice, fratello di Antonino, il pentito che mi ha accusato nel 2011, per aver aiutato un altro fratello, Maurizio, anche lui collaboratore di giustizia, ad andare agli arresti domiciliari perché anoressico (pesava 50 chili). Insomma, avrei aiutato un ragazzo collaboratore di giustizia a non morire in carcere. Non è vero, ma intanto la mannaia è calata. Bene. Dopo due anni di indagini nessuno è ancora in grado di dirmi quando la presunta corruzione si sia consumata: e non dico il giorno o il mese precisi, almeno l’anno, perché si parla di una data imprecisata tra il 2005 e il 2008. Non mi è stato precisato in che cosa consisterebbe questa corruzione, se in denaro o altro. Non mi è stato mai detto dove sarei stato corrotto, e soprattutto quanto mi sarebbe stato dato se 5, 50 mila o 100 mila euro. Le indagini patrimoniali hanno setacciato la mia vita e quella dei miei familiari, per dieci anni complessivi e, ovviamente, nulla è stato trovato. Hanno setacciato il mio unico conto corrente, la mia sola carta di credito, poi quelle dei miei familiari, e ora in una paginetta leggo solo che le indagini non hanno dato alcun esito. Quando nell’ottobre 2011 la procura reggina ha chiesto la proroga delle indagini, io ho fatto una nota in cui ho detto che eticamente non mi opponevo alle indagini patrimoniali, ma invitavo solo a fare in fretta perché mi tenevano appeso al procedimento. La verità è che si cercava a tutti i costi qualcosa che non è stato trovato. Nemmeno con cinque anni di tabulati telefonici sotto setaccio.

Come è possibile se le indagini sono durate dal 2011 al 2013?
Non sono stato sottoposto a intercettazioni, ma sono stati presi i tabulati delle mie telefonate, traendoli in parte dall’archivio dell’avvocato Genchi, che aveva rastrellato dozzine di tabulati quando si occupava dell’indagine Why not. D’altronde aveva i tabulati di mezza Direzione nazionale antimafia, compresi quelli dei due telefoni di Grasso.

Nelle 600 pagine di richiesta di archiviazione, cosa scrivono i pm?
Me lo chiedo anche io, dato che le accuse dovevano accertare due elementi ma nessuno di essi è stato riscontrato, a parte il fatto che sono un magistrato e non mi pare ci volesse la Cia per scoprirlo. Per il resto si doveva trovare il prezzo della corruzione che non si sa qual è, e una condotta illecita che non si conosce e che non è mai stata posta in essere. È stata scritta una mole di dati che non riguardano in alcun modo l’accusa di corruzione, ritengo solo per tenere in piedi a oltranza la difesa dell’attendibilità di un collaboratore di giustizia, mettendo in soffitta le palesi falsità che dice. Perché dovrei sacrificare il mio onore sull’altare della credibilità di un pentito che è insolitamente “prezioso” agli occhi della procura di Reggio Calabria? Perché si deve contrapporre la mia credibilità a un soggetto che, per altro, anni fa ho arrestato per mafia in un procedimento penale di cui ero giudice, e che quindi non è neppure estraneo al rancore nei miei confronti?

Perché secondo lei?
C’è stata ed è in atto sin dal primo momento una difesa strenua dell’attendibilità di un pentito a dispetto di ogni verità e delle sue calunnie, almeno di quelle nei miei confronti. I collaboratori si “pesano” con i riscontri, se non si trovano sono mentitori a prescindere, verrebbe da dire. Altrimenti dovremmo limitarci a un atto di fede rispetto a un istituto che ormai, come si vede, è stato distrutto: la collaborazione di giustizia è stata annientata dall’uso talvolta disinvolto che i pm ne hanno fatto. Non ci sono collaboratori di livello da anni, basti vedere cosa succede in Sicilia o in Calabria, dove si “pentono” ormai solo le terze e le quarte fila delle organizzazioni criminali. La legge prevede che il collaboratore riferisca i fatti indimenticabili entro 180 giorni. Com’è possibile che un sedicente boss, come quello che mi ha accusato, abbia dimenticato la mia corruzione, quella di un magistrato, e ne ha parlato dopo quella scadenza? E per giunta solo dopo che un gip di Catanzaro lo aveva accusato di reticenza? Solo dopo questi fatti, con un rigo di dichiarazione in un memoriale dai contenuti sospetti, dice che suo fratello gli avrebbe fatto intendere che io sarei stato corrotto. “Intendere”: il fratello non glielo avrebbe nemmeno mai detto. La mia vita al macero perché Lo Giudice Antonino, uno che non riesce a scrivere correttamente neanche il proprio cognome, ha “inteso”. Lo aspetto in aula, speriamo.

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