Abbronzatevi con questo: “L’urlo e il furore” di William Faulkner

L'urlo e il furore è il libro più «oscuro» e più «evocativo» del "Dixie Limited" Faulkner. La storia dei Compson, una famiglia di quel "profondo sud" americano bazzicato da sudisti sconfitti, negri perseguitati e predicatori inascoltati.

«Dixie Limited» lo definì Flannery O’Connor. William Faulkner è un treno rapido che corre nel profondo sud dell’America senza fermarsi davanti a nulla. Non c’è scrittore che «vorrebbe trovarsi sulla sua strada», dice la grande scrittrice americana. E se, al confronto di Faulkner, O’Connor si sarebbe sentita «un mulo» o «una station wagon», si può capire per quale ragione la Folio Society, prestigiosa casa editrice inglese, ha avuto il coraggio di dare alle stampe un suo romanzo al modico prezzo di 225 sterline. Il libro lo meriterebbe. Si tratta di The sound and the fury. La Folio Society ha deciso di celebrare i cinquant’anni dalla morte del grande scrittore americano, stampandolo ad inchiostro a colori, come era nella volontà del premio Nobel per la letteratura.

La vita è «un racconto detto da un idiota, pieno di urlo e furore, che non significa nulla», dice il Macbeth di Shakespeare. Di qui, il titolo di quella che è considerata l’opera più «oscura» dello scrittore di Oxford, Mississippi. Un libro, scrive Emilio Tadini, nel 1997, che sembra volere mettere «in scena la vita come Caduta». Un libro in cui il “Dixie Limited” ci ha «riversato le sue viscere». «A real son of a bitch». E se lo definisce Faulkner così, «un vero figlio di puttana», non sarà diverso per chi lo avvicini per la prima volta.
Sfogliando appena due pagine, il lettore si troverà già straniato in un mondo incomprensibile: «Chi sta parlando? Chi è Caddy? Chi è Luster? Chi è Versh? Chi è Maury? Chi è zio Maury? Perché certe parti sono scritte in corsivo?». Il lettore, a questo punto, andando a cercare conforto nei titoli dei quattro “atti” che lo compongono, troverà soltanto quelle che potrebbero essere laconiche didascalie di foto in bianco e nero: 6 aprile 1928, 2 giugno 1910, 7 aprile 1928, 8 aprile 1928. Disorientato, potrebbe abbandonare il libro. Oppure resistere come hanno “resistito” i Compson, come dice alla fine del romanzo la loro schiava nera Dilsey. Perché se il lettore riuscirà a “resistere”, lentamente gli si dischiuderà il senso di un dramma che insieme a quello dell’Ulysses di Joyce, afferma lo scrittore Nicola Lagioia, «è la migliore rivisitazione moderna dell’Amleto».

Ambientato nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, la storia narra, attraverso le loro voci, le vicende dei componenti di una famiglia in decadenza, i Compson, nel “profondo sud” americano della “bible belt” (cintura della bibbia), della segregazione razziale, bazzicato da sudisti sconfitti, negri perseguitati e predicatori inascoltati.
La prima voce narrante del romanzo è quella Benjiamin (Benji) Compson, l’idiota. Egli registra conversazioni, fatti, suoni, odori, colori, apparentemente senza alcuna logica. In questo capitolo, il tempo è fatto a pezzi. Segni e gesti si confondono, rimandano uno all’altro. L’unica traccia di un ordine nella narrazione sembra essere l’affetto di Benjiamin per la sorella Candance (Caddy), evocata da Benjamin attraverso parole che gliela ricordano («caddie», «candy», «candles», nella versione inglese).
Caddy e la sua gravidanza sono all’origine del dramma della famiglia Compson. La sua figura si stende in tutto il dramma, come il rampicante caprifoglio, simbolo dell’amore avvinghiante e dell’ossessione che nutre per lei Quentin, il primo dei fratelli Compson e la voce narrante del secondo atto. Dopo decine di pagine dove a parlare è un idiota, passando alla seconda voce narrante, Faulkner non aiuta il lettore, anzi, gli complica la vita gettandolo dentro le riflessioni e gli accadimenti di un giovane studente universitario ossessionato dalla virtù della sorella, attraverso la tecnica joyciana del «train of thought», il cosiddetto “flusso di coscienza”. Nel terzo atto, a parlare, è una voce finalmente “normale”. Quella dell’uomo comune, di Jason, l’ultimo dei Compson: tirchio, meschino, razzista che «avendo la massima considerazione solo per la polizia, temeva e rispettava unicamente la negra che cucinava il cibo che mangiava, sua nemica giurata dalla nascita». L’ultimo atto, ambientato durante la Pasqua del 1928, è proprio dedicato alla nemica giurata di Jason, la negra Dilsey.

«Nella nostra memoria – sollecitata, provocata dalla lettura – può darsi che della scrittura di Faulkner resti un’impressione di abbondanza, di ricchezza. Forse anche di oscurità», scrive Tadini. «Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere», dice Quentin Compson nel secondo atto. Tutto ne L’urlo e il furore concorre all’evocazione di un tempo che è sempre passato: che è fotografia, ricordo, conservato nella memoria di un’idiota, di una negra o su uno scaffale della biblioteca del paese. Si tratta di un «presente mascherato», scrive Jean Paul Sartre nel suo saggio dedicato al libro di Faulkner.

Se si vuole la prova della grande capacità evocativa di Faulkner, che riusciva a lasciare senza parole persino Flannery O’Connor, questo è il libro che non si può non leggere.

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