4 milioni di curdi e un dubbio

E se gli americani tradissero ancora, come nel ‘91? E se i turchi entrassero per non andarsene più? I curdi sono filoUsa ma... Dal nostro inviato nel nord Irak

Sulaimainiyah (nord Irak) – Se guerra sarà, la grande corsa incomincerà da qui. Kirkuk lo scrigno dell’oro nero, la Gerusalemme dei curdi, ma anche la città rubata dagli inglesi agli ottomani e lì oltre le prime vette imbiancate. Quarantotto chilometri, mezz’ora di macchina, un’ora di carrarmato da quella linea di confine che qui, da oltre dieci anni, tutti chiamano linea del fronte. Qui sono i territori curdi del nord Irak. Le montagne dove, 12 anni fa, passata la Desert Storm e liberato il Kuwait, iniziò un’altra guerra. «Insorgete» gridò il primo marzo ‘91 papà Bush. I curdi l’ascoltarono. Cadde Sulaimainya, cadde Kirkuk nel giorno di primavera. Due giorni dopo l’illusione finì. Mentre al confine del Kuwait gli americani già se ne andavano, quassù arrivò la Guardia Repubblicana. E Kirkuk, la capitale dei sogni curdi, si trasformò nel simbolo dell’ennesimo inganno e dell’ennesimo tradimento. Durò due settimane e fu un eccidio. Impresso ancor oggi nella memoria di Hamida Hussein e in quella di ogni altro curdo. «Erano ventotto ragazzini, li fucilarono uno dopo l’altro davanti ai nostri occhi in una strada di Kirkuk». La strage andò avanti per due giorni. Poi, inseguiti dalle guardie di Saddam, due milioni di uomini, donne e bambini curdi arrancarono verso il confine turco. Mentre il mondo guardava e attendeva, Hamida e il resto del suo popolo trascinavano i piedi nel fango. Lottavano per raggiungere la frontiera. «Chi è rimasto indietro non è più tornato – ricorda lei – sono stati uccisi tutti. Nessuno li ha più visti».

L’incubo del tradimento
Alla frontiera fu la salvezza per molti, ma non il paradiso. «Scappavo dagli iracheni e mi ritrovai bastonato e umiliato da quelli turchi. Prima ci rubarono tutto, poi ci tennero segregati nei campi profughi. Da allora li odio con tutto il cuore», grida Saadek. «Li detestiamo perché ci hanno torturato e trattato come bestie» ripete Gahazi. Da allora sono passati tredici anni. Passata la strage arrivarono gli americani e gli altri soldati dell’Occidente. La Guardia di Saddam fu costretta a ritirarsi sulla linea di Kirkuk e Mosul, a nord del 36esimo parallelo, su un fazzoletto di montagne e altipiani grande quanto la Svizzera e difeso dagli aerei anglo americani. Quattro milioni di curdi hanno dato vita ad un embrione di Stato, all’interno dei territori del nord-Irak, dove le due principali fazioni curde, quando non si fanno guerra tra loro, battono moneta, amministrano il territorio ed eleggono un parlamento comune. Ma ora, per i curdi del Puk (Unione Patriottica Curda) di Jalal Talabani e per quelli di Massoud Barzani (Partito Democratico Curdo) l’incubo del tradimento è nuovamente alle porte. è successo a Salahaddin dove la conferenza dell’opposizione irachena discuteva le sorti dell’Irak post-Saddam. Ma altrove qualcosa era già stato deciso. L’ha fatto capire Zalmay Khalizad, l’inviato della Casa Bianca, l’“afghano di Wahington” che nel 2001 portò Karzai a Kabul e disegnò lo scenario politico post-talebano. L’uomo che oggi prepara i destini del dopo Saddam. «Ogni intervento dovrà essere interamente coordinato» ha detto Zalmay agli oppositori iracheni riuniti a Salahiddin. «Noi ci opponiamo ad un’entrata unilaterale dei turchi nel nord Irak. Dovranno andarsene quando le altre truppe se ne andranno». Parole apparentemente innocue, quasi rassicuranti. Ma non qui. Qui la chiave di lettura è solo una. «Gli americani hanno già deciso di permettere ai turchi di entrare nei nostri territori, gli hanno già promesso che ci impediranno di riconquistare Kirkuk, la nostra capitale. Ora per noi il rischio vero non sono più i soldati di Bagdad, ma quelli di Ankara». Parole che in caso di nuova guerra rischiano di dar vita ad un confuso conflitto intestino dietro le prime linee dell’alleanza anti-Saddam.

I curdi? Non esistono
«Kirkuk è curda e come tale dovrà far parte della futura entità curda in Irak» sostiene Abdul Razzak, ministro per le relazioni estere del Puk. Ma l’esercito turco, nonostante il suo Parlamento debba ancora votare l’ok alle truppe americane, è da mesi nei territori dell’Irak settentrionale. Quasi 5.000 uomini, appoggiati da forze speciali inglesi e americane, sono al lavoro per preparare gli avamposti dell’attacco a Saddam. Le forze speciali di Ankara controllano da mesi l’eliporto di Bamerni, una cinquantina di chilometri a nord della frontiera turco-irachena. La presenza del corpo di spedizione nell’Irak settentrionale è stata ammessa ufficialmente dallo stesso capo di stato maggiore turco, generale Hilmi Hozkuk. La presenza, mai riconosciuta prima, è stata ufficializzata ed elevata al rango di “missione”. Una missione con due obiettivi precisi: proteggere gli interessi delle minoranze turcomanne dell’Irak e impedire la nascita di un’entità statale curda. Del resto per i turchi la frontiera settentrionale sembra quasi non esistere. «Un territorio abitato da tribù» disse il generale Hozkuk puntando il dito sulla carta del nord Irak. «Una zona» precisò l’ex ministro della difesa Sabah Ettin Cakmakouglu, che la Turchia «potrebbe invadere per riparare i torti subiti dopo la prima guerra mondiale».

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