1996-2001: un “sacco” di Roma

Dopo cinque anni di centrosinistra al governo, l’Italia si scopre nelle mani dei “soliti noti” e dei grandi gruppi della finanza internazionale. Fatti (e misfatti) della “Palazzo Chigi Merchant Bank”, dove il popolo (bue) conta sempre meno. E il manuale Cencelli diventa “la culla della democrazia”

Sono ormai trascorsi cinque anni da quando, il 21 aprile 1996, Romano Prodi, leader della coalizione dell’Ulivo, riceveva da Oscar Luigi Scalfaro l’incarico di formare un nuovo governo. Era la vittoria della “gioiosa macchina da guerra” del centrosinistra, salutata con canzoni popolari e bandiere rosse sventolanti, che con Prodi prima, e poi con D’Alema e Amato doveva finalmente portare se non una “rivoluzione”, certamente una svolta riformista nel vecchio sistema di gestione della cosa pubblica e una trasformazione in senso liberale della nostra (anomala) economia “mista” (un intreccio tra pubblico e grandi famiglie del capitalismo nazionale, infine tra politica ed economia). Tuttavia qualcuno ha osservato che all’attuale (cosiddetta) seconda repubblica piuttosto che i principi del libero mercato, del federalismo e della sussidiarietà si adattano meglio le parole del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – almeno questa sembra essere l’opinione di Giulio Andreotti: «Seconda repubblica? Non mi sono mai accorto che fosse finita la prima». O forse, come racconta a Tempi Paolo Cirino Pomicino «qualcosa è davvero cambiato col centrosinistra: all’epoca del “manuale Cencelli” la “lottizzazione” – prassi riconosciuta e accettata degli accordi tra partiti, compreso quello d’opposizione, ndr – vedeva partecipare una grande pluralità di interessi. Oggi a questa pluralità di voci si sostituisce un’impressionante e ristretta oligarchia dove il popolo conta ancora meno. Ma se questa è la novità, il manuale Cencelli rappresenta la culla della democrazia».

Vecchi e nuovi monopoli
Di certo vi è che, deposto (manu giudiziaria) il vecchio sistema (eticamente spregevole e non più attuale di fronte alle sfide della globalizzazione), con l’avvento dell’Ulivo lo Stato resta più che mai lontano dal rinunciare al controllo degli ex enti pubblici (di molti dei quali rimane azionista di riferimento attraverso il ministero del Tesoro, vedi box) e alla funzione di direzione del traffico tra i grandi gruppi finanziari privati (nazionali, cioè i soliti Fiat, De Benedetti, Pirelli, Benetton, Mediobanca; e internazionali, cioè le multinazionali e le merchant bank che nelle privatizzazioni italiane hanno trovato la propria fortuna), ovvero i poteri forti che hanno finito per riempire il vuoto lasciato dal “pubblico” (già il rapporto “Le privatizzazioni in Italia dal 1992” a cura della R.&R. – ufficio studi di Mediobanca – 2000, registra il passaggio da un monopolio pubblico ad uno privato: «gli effetti delle privatizzazioni sull’industria hanno comportato in generale un aumento della concentrazione e quindi, in via di principio, una riduzione della concorrenza», come a dire: il fallimento del fine stesso delle privatizzazioni, che è quello di garantire maggiore offerta di servizi e prezzi più bassi al consumatore – mentre le parcelle pagate dallo stato a favore dei suoi numerosi intermediatari – consulenti, valutatori, collocatori, operatori pubblicitari – si aggira sui 5,600 miliardi). Effettivamente, negli ultimi 5-6 anni, tra post-comunisti al governo e grande capitale finanziario l’intesa è stata quasi perfetta. Geminello Alvi, economista, ex direttore della rivista Surplus – nonostante abbia mostrato un qualche imbarazzo alle domande di Tempi, forse per le sue collaborazioni all’Espresso e al Corsera – conferma quanto già detto chiaramente sul Corriere Economia dello scorso 15 gennaio: gli anni dei governi di centrosinistra sono quelli che più hanno favorito l’oligarchia finanziaria italiana: «traslando quote del reddito nazionale dal lavoro alle rendite e ai profitti, tassando massicciamente il lavoro… la quota dei salari è crollata: statisticamente l’Italia può dirsi fondata non più sul lavoro, ma sulle rendite e i profitti dei grandi patrimoni». Ovvero: mai i lavoratori hanno goduto di una fetta tanto piccola del pil, mentre la forbice tra ricchi e classe media si è divaricata («il 7% degli italiani possiede il 44% della ricchezza») – il tutto con una svolta decisiva nel 1993 (l’apice di mani pulite, quando Cagliari e Gardini con due misteriose morti catalogate come suicidi sparivano dalla scena e Giuliano Amato tassava i depositi bancari).

Spa formali e debito (pubblico) reale
«Il fatto è che la vecchia classe politica ha commesso tutti gli errori del mondo, – riconosce Massimo Pini, tra i più stretti collaboratori di Bettino Craxi, membro del comitato di presidenza dell’Iri dal 1986 al 1992, consigliere per le privatizzazioni di Giuliano Amato tra 1992 e 1993 nonché autore de I giorni dell’Iri (Mondadori, 2000) -, però ridistribuiva gli introiti anche secondo il principio sociale di sostegno ai settori e alle aree più deboli. Il vecchio sistema economico si faceva carico della creazione di posti di lavoro (l’Iri aveva tra i suoi obiettivi proprio questo, che spesso – ammettiamolo pure – realizzava in maniera antieconomica). Oggi siamo affidati al personalismo di alcuni manager che fanno quello che gli pare dietro lo schermo della società per azioni di diritto privato. E se è vero che il vecchio modello dell’economia mista non poteva continuare, soprattutto dopo l’entrata dell’Italia in Europa, il suo cambiamento doveva offrire l’occasione per rafforzare il paese, mentre così non è stato. Le privatizzazioni gestite dal centrosinistra sono state una grande occasione mancata, perché non hanno saputo avviare una riconversione del sistema industriale e finanziario nazionale. Era l’idea del ministro dell’Industria Giuseppe Guarino, allontanato nel 1993 dal Comitato di Privatizzazioni del governo Amato, cui si è preferito l’abbandono di qualunque progetto e la linea del Ministero del Tesoro, diretta a far cassa». Eppure mentre alcuni grandi gruppi che forniscono servizi, di fatto ancora sotto il controllo diretto del Tesoro, sono avviati a diventare “multi-utility” – come l’Enel, una (formale) Spa, ancora statale al 67%, che allarga la propria attività in diversi settori grazie al finanziamento delle «bollette elettriche più care d’Europa» (dato dell’ultimo rapporto della Banca centrale europea) – il debito pubblico italiano, per effetto della messa in liquidazione dell’Iri e degli altri enti statali, anziché diminuire ha raggiunto nel 1999 quota 2.446.123 miliardi, pari al 114,9% del Pil – laddove secondo Maastricht doveva ridursi al 60% del Pil, come rileva ancora Massimo Pini: «Tra l’altro, fino al 1992, il debito pubblico rimaneva quasi integralmente sottoscritto dai cittadini, che avevano accumulato un risparmio circa due volte superiore. Un debito ampliamente garantito quindi, tanto da diventare ben presto l’oggetto dei desideri di grandi banche internazionali e finanziarie anglo-americane. Che in questi ultimi anni di riorganizzazione delle partecipazioni statali sono riuscite a metterci sopra le mani. Inoltre, con il passaggio all’Euro, quel debito non può più essere svalutato – mentre durante i nefasti governi del passato, l’Italia si era sempre indebitata in lire, e attraverso le “svalutazioni competitive” l’esecutivo riusciva a dare fiato all’economia riducendo il capitale da rimborsare. In conclusione, oggi ci ritroviamo legati mani e piedi al capitale internazionale con un debito da pagare per i prossimi 100 anni a valore fisso». Un’anomalia riconosciuta anche da economisti molto lontani da Pini, come Marcello De Cecco (docente di Economia monetaria alla Sapienza di Roma e cultore degli autori più cari a sinistra, da John Maynard Keynes a Piero Sraffa), autore della prefazione al libro (pubblicato da Donzelli) Le privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana. Ma per accorgersi del corto circuito di questo centrosinistra basta sfogliare la (appena rinata) Unità, quotidiano “degli operai e dei contadini” fondato da Antonio Gramsci e oggi diretto da Furio Colombo (“plenipotenziario” della Fiat negli Usa), che attacca Romiti, s’indigna con un noto «impero industriale e mediatico» e tesse l’elogio degli Agnelli, così bravi da aver eliminato “soltanto” 700 posti di lavoro. Alla fine della sua “lunga marcia”, il partito comunista si trova a braccetto tra Furio Colombo e l’Avvocato Agnelli…

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