«Letta si muove in continuità con le politiche Monti e dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti». «Vale a dire», spiega Giacomo Zucco, portavoce del Tea Party Italia, «che invece di abbassare le tasse e dismettere il patrimonio pubblico preferisce aumentare la pressione fiscale». Una politica fiscale fallimentare, secondo il Tea Party Italia che, come le omologhe associazioni statunitensi, promuove un’economia meno statalista e si batte contro la politica della spesa pubblica e l’oppressione del fisco. «La situazione drammatica – prosegue Zucco – assume i contorni della commedia, quando il governo si vanta di aver rimandato l’aumento dell’Iva grazie al decreto Fare che però porterà l’acconto Irpef e Irap al 110 per cento, produrrà aumenti dell’imposizione fiscale sottaciuti e nuove tasse, dal costo dei bolli alla creazione di accise sulle sigarette elettroniche».
Cosa dovrebbe fare il governo per risolvere la crisi del debito?
Quello che sta facendo il premier inglese David Cameron: tagliare la spesa e diminuire le tasse. Quando i governi delle democrazie più avanzate si accorgono di avere un peso sproporzionato nell’economia nazionale, tolgono le mani dello Stato dall’economia, riducono la spesa improduttiva e diminuiscono le imposte sulle imprese, sulle famiglie, sul lavoro.
In Italia sono molti i politici che propongono di abbassare la spesa pubblica e dismettere il patrimonio statale. Perché non si arriva a risultati concreti?
Perché la spesa pubblica e il patrimonio statale, le società partecipate, e via dicendo, garantiscono potere e voti. Grazie all’enormità degli asset pubblici e della spesa, lo stato ha una discrezionalità enorme. E per chi vive di voti, assumere e spendere per gli amici denaro pubblico, in modo discrezionale, è la strada più semplice per garantirsi il mantenimento del potere. Se un politico non può finanziare nessuno e non può assumere, il suo potere si riduce. In Italia, il lungo periodo di deficit alto ha prodotto una classe dirigente spendacciona. Per questo è difficile che agisca sulla spesa pubblica. Le democrazia affariste, purtroppo naturalmente tendono a ottenere il consenso servendosi di soldi pubblici.
Il 4 luglio avete organizzato un convegno a Roma. Il motto è “meno tasse, meno Stato, più libertà”.
La nostra associazione propone un pledge, un impegno, anti-tasse a tutti i candidati. Una sorta di contratto con gli elettori con il quale il candidato promette, in ogni situazione, di dare voto contrario ad aumenti della tassazione e del deficit pubblico. I candidati che vogliono sottoscriverlo, hanno l’appoggio dell’associazione. Qualora non lo rispettino, viene pubblicizzata la loro violazione.
Sembra un escamotage a metà fra il contratto berlusconiano e la democrazia diretta di stampo grillino. Funziona?
Il pledge è un’idea di Grover Norquist, presidente di Americans for Tax Reform. Sarà l’invitato d’onore al convegno del 4 luglio. L’impegno ideato da Norquist vincola l’eletto al comportamento da tenere in parlamento, non lo obbliga a ottenere qualche risultato. La sottoscrizione è aperta a tutti i politici senza distinzioni. Infatti, i parlamentari di questa legislatura che hanno firmato il pledge fanno parte di molti partiti. Anche per questo, il modello funziona. Negli Usa esiste fin dagli anni Setanta e ha contribuito a costruire una solida base di elettorato consapevole del fatto che può agire contro il problema della tassazione e di politici che rispettano le promesse sulle tasse.