Tre notizie molto diverse con un unico punto in comune: quel che per mesi abbiamo letto sui giornali non erano fatti, ma interpretazioni, suggestioni che, in almeno un caso, erano state artatamente create per fare pressione attraverso i media.
CASO YARA. Partiamo dal caso più clamoroso e che riguarda Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni di Brembate uccisa nel 2010. Su Libero, il giornalista Luca Telese ha raccontato delle incredibili dichiarazioni rese in aula da Giampietro Lago, il comandante del Ris che è stato interrogato da Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso la tredicenne. I due discutevano di un filmato dei Ris – diffuso a più riprese da tutti i media, ma poi non inserito nel fascicolo dagli inquirenti – in cui appariva il furgone di Bossetti aggirarsi intorno alla palestra dove è stata vista per l’ultima volta Yara. Ecco il dialogo riportato da Telese:
– Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?
– Perché dice questo, avvocato?
– Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane!
– Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa.
– Cosa vuol dire colonnello?
– È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa.
Gli investigatori non ritenevano quindi di avere immagini sufficientemente chiare per indicare che il furgone transitante intorno alla palestra era proprio quello di Bossetti. Tuttavia hanno confezionato per la stampa un filmato, con immagini diverse, per dare tale impressione.
CASO UNICREDIT. Per un mese ha tenuto banco sui giornali l’inchiesta della Dda di Firenze su Unicredit. Secondo l’accusa il vicepresidente della banca, Fabrizio Palenzona, avrebbe aiutato l’imprenditore Andrea Bulgarella nella ristrutturazione di un debito di 60 milioni. Sempre secondo i media (ispirati da chi è il segreto di Pulcinella), Bulgarella avrebbe avuto contatti col boss mafioso Matteo Messina Denaro, tuttora latitante.
Ma il 31 ottobre il Tribunale del Riesame ha annullato il decreto di perquisizione a carico di Palenzona e del suo collaboratore Roberto Mercuri. Le motivazioni addotte del Riesame smontano le ipotesi dell’accusa: dei reati finanziari e favoreggiamento a Cosa Nostra non c’è nemmeno il «fumus». «Le fattispecie di reato ipotizzate – scrive il Riesame – appaiono tutt’altro che delineate nel decreto impugnato». Il prestito non è mai stato concesso, Palenzona e Bulgarella non si sono mai incontrati nell’ultimo anno e mezzo e quest’ultimo era considerato non un mafioso, ma «il più pulito dei costruttori siciliani, l’immobiliarista di fiducia di Falcone e della procura di Palermo… Amico di Pio La Torre…». Lo stesso Bulgarella, commentando la decisione, si è detto felice di aver trovato «un giudice che si è letto le carte» (a questo siamo ridotti, a sperare che un giudice si informi prima di sentenziare).
Intanto, però, per un mese le intercettazioni sono apparse sui giornali. Intanto, però, per un mese, l’immagine di Unicredit è stata pesantemente danneggiata. E non solo l’immagine: il titolo è sceso in borsa (e ai piccoli azionisti chi ci pensa?) per un’indagine così fragile nei presupposti che non doveva nemmeno iniziare.
CASO SAIPEM. Come vi abbiamo già raccontato, l’ex amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, è stato prosciolto da ogni accusa in merito a un’inchiesta su un presunto giro di bustarelle in Algeria. Scaroni era stato indagato nel febbraio 2013 con l’accusa di aver fatto pagare una tangente ad alcuni esponenti del governo algerino per far aggiudicare appalti miliardari a Eni e Saipem. Già il 2 ottobre il gup aveva scagionato Scaroni e nelle motivazioni ora si legge che quelle che il sostituto procuratore Fabio De Pasquale riteneva delle prove erano, in realtà, «elementi non sufficienti, spesso anche per la loro contraddittorietà, a provare neppure per via induttiva» qualsiasi bustarella.
Non solo, il giudice Alessandra Clemente ha criticato pesantemente il modo con cui i colleghi hanno condotto gli interrogatori di due testimoni, contestando di averli indotti a confermare le loro ipotesi. «La valutazione delle risposte – scrive Genovese – non può prescindere dalle modalità con le quali le domande sono state fatte. I pm non ha chiesto di riportare fatti dei quali gli interlocutori avrebbero potuto essere testimoni ma ha cercato di reperire nelle risposte argomenti di supporto alla tesi accusatoria, rappresentando situazioni e circostanze disarticolate tra loro, non specifiche e assolutamente decontestualizzate. La versione parziale o comunque limitata rappresentata dal pm, se non era in grado di condizionare i dichiaranti, quanto meno suggeriva risposte generiche e generali. Le domande poi a volte erano basate su presupposti ritenuti provati ma che invero erano oggetto di indagine».
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