21 aprile 2012: si celebra la quinta edizione di “Record Store Day”, il giorno dedicato alla sopravvivenza dei piccoli negozi indipendenti che vendono (ancora) vinili e che, fuori dalla grande distribuzione, sono ancora punti di riferimento per gli appassionati di musica. L’iniziativa parte dall’America, dove questo tipo di esercizi, i cosiddetti “indie”, detengono il 67 per cento delle vendite totali dei vinili che lo scorso anno hanno raggiunto un totale di due milioni e mezzo di pezzi venduti. In Italia i negozi indipendenti valgono quasi il 19 per cento del mercato, una percentuale minore ma non trascurabile rispetto alla grande distribuzione. I dati, documentati da International Federation of Phonographic Industry, collocano il mercato dei vinili italiano al settimo posto, con 2 milioni di dollari. Al primo posto ci sono gli Usa con 66 milioni (quadruplicati rispetto al 1997).
Lasciando da parte le cifre e concentrandosi sulla musica, fanno riflettere le dichiarazioni che in questi giorni gli esperti del settore, dai negozianti agli artisti, stanno rilasciando sull’iniziativa promossa per il 21 aprile. È come se stessero combattendo una battaglia di retroguardia e anche un po’ fuori dalla realtà: che senso ha inneggiare al vinile, sperando che torni a essere un acquisto popolare, se sta per scomparire addirittura il cd? Non diventa tutto questo un florilegio di belle frasi a uso e consumo di una platea un pò snob, un pò nostalgica e un po’ borghese? Diciamoci la verità, gli appassionati del vinile sono ormai solo i collezionisti che hanno tempo e denaro per poter riempire gli spazi dei loro scaffali domestici.
Perché un ventenne dovrebbe interessarsi all’incisione con il suono profondo, alla copertina “opera d’arte”, alla busta interna con i testi leggibili, quando nessuno gli ha insegnato cosa vuol dire davvero ascoltare musica? Cosa vuol dire possederla, sentirne il gusto, valorizzarne la bellezza. Allora si che ci si appassionerebbe anche alla confezione, maneggiandola come una cosa cara. Ma non è più così, o almeno non è più appannaggio di una cultura popolare che rispettava il genio altrui e ne esaltava la comunicazione. Quello di cui la musica ha bisogno oggi, per salvarsi e salvare il suo indotto commerciale, è un’educazione che nasca dal confronto con chi sta aldilà del bancone del negozio (e non un anonimo commesso che non sa neanche di cosa stai parlando), con la curiosità della scoperta di nomi nuovi e nuove vibrazioni, con il ritorno all’ascolto della buona musica, perché anche questo c’entra con la vita. Ecco perché il vero problema non è il supporto, vinile, cd o files scaricati. Se vogliamo salvare i negozi indipendenti in questa maledetta crisi, dobbiamo risolvere un semplice, eterno, quesito: perché su un libro della Littizzetto non si paga l’Iva, mentre su un disco dei Rolling Stones (dei Beatles, ecc…), l’Iva è al 21 per cento?