Il “problema dell’appartenenza” può essere espresso molto semplicemente nei termini seguenti: “Qual è il rapporto tra appartenenza e libertà personale?”. In particolare, qual è il rapporto tra l’appartenenza a una particolare comunità politica e la libertà personale? Non posso pretendere di avere alcuna competenza in filosofia politica; la mia disciplina accademica è la teologia. Nondimeno, la mia esperienza a New York mi ha fatto riflettere su questo tema, dopo che alcuni miei articoli sono apparsi su pubblicazioni che godono di molto prestigio presso l’establishment culturale americano liberal, come il New York Times e le riviste New Yorker e New Republic. Per di più, negli ultimi due anni sono stato coinvolto nella produzione di un programma televisivo sull’impatto di Giovanni Paolo II su questo stesso establishment culturale “di sinistra”. Il programma è stato trasmesso il 28 settembre scorso dalla PBS con grande successo di critica.
La fede che fa paura ai liberal Come esito di queste esperienze, sono stato invitato a partecipare a un circolo informale di influenti liberal newyorkesi impegnati nei mass-media, in politica, nelle università e nelle case editrici. Costoro si incontrano regolarmente per riflettere sul futuro del liberalismo americano. Questi liberal si rendono conto che il liberalismo del passato, dagli anni Trenta ai Settanta, non è stato capace di tener conto di importanti preoccupazioni del popolo americano, spingendo molti simpatizzanti dello spirito politico liberal nelle braccia di un partito repubblicano dominato da forze conservatrici. I miei amici sospettano che ciò di cui sono in cerca è un nesso fra il liberalismo e il forte senso religioso della maggioranza del popolo americano, che non accetta le forme radicali di liberalismo abbracciate dai promotori dei diritti riproduttivi, dei diritti degli omosessuali, del femminismo e del multiculturalismo. Da persona religiosa credo in un Mistero verso cui puntano tutte le cose che esistono. E’ questo Mistero che dà senso e scopo a tutte le azioni umane, precisamente in quanto umane. L’identità personale – l’esperienza di essere qualcuno e non qualcosa – emerge precisamente attraverso la mia ricerca di questo Mistero. La libertà è la capacità di perseguire questa ricerca di significato e di soddisfazione del bisogno di essere me stesso. Il problema comincia quando mi riconosco come cristiano. In tale caso, credo che questo Mistero assolutamente trascendente è entrato nella storia umana e si è identificato con un individuo storico singolo, in un dato luogo, in un dato momento del passato. Siccome non ho vissuto in quei tempi, questo evento deve entrare nel mio momento presente attraverso qualche realtà storica, un processo storico, un movimento, per così dire, generato da questo evento. Chiamo questo processo “Tradizione”. Il Mistero contiene la piena verità sulla mia umanità. La sua Incarnazione è un evento totalizzante, che impatta tutte le dimensioni della mia esistenza di persona umana. Tra queste vi è la dimensione politica che determina come vivo in quanto membro di una società, di una nazione. Se il Mistero è diventato incarnato nella storia, se la sua “autorità assoluta” è dunque identificabile con una realtà storica, non mi aspetterò forse che la politica riconosca questa presenza storica del Mistero, permettendo che essa influenzi le leggi attraverso cui lo Stato governa? Come posso allora convincere gli altri che non tenterò di imporre loro le mie convinzioni su ciò che è vero e (quindi) buono? E se non sono un cristiano, come posso non sentirmi minacciato da una fede che afferma che l’Assoluto è presente nella storia? Queste sono le domande a cui mi trovo di fronte durante le mie discussioni coi rappresentanti del liberalismo politico americano.
Dai padri pellegrini al mito dello Stato neutro Negli Stati Uniti la fede protestante ha fondamentalmente cessato di dettare il mito costitutivo che unificava la società secondo categorie e narrative cristiane, eccetto che per coloro che vogliono trasformare nuovamente la società in ciò che chiamano una “nazione cristiana”. Il crollo di questo mito unificante ha aperto la strada al trionfo di una posizione di neutralità radicale verso le convinzioni religiose, assunta come base per l’unità della società. La cultura attualmente dominante – cioè il liberalismo di sinistra- è stata costruita sul rigetto della storia e della tradizione, viste come sorgenti di divisione e come ostacoli alla tolleranza necessaria per un mondo multiculturale modellato dagli interessi del globalismo economico.
L’idea che il governo debba essere neutrale riguardo alle opinioni morali e religiose dei cittadini è il punto di partenza di tutte le forme di liberalismo. Quello che il governo deve fare è promuovere e proteggere quei diritti che permetteranno ad ogni persona di scegliere i suoi valori e i suoi fini. Il sistema di governo che ne risulta è stato chiamato “repubblica procedurale” perché afferma la priorità di procedure eque piuttosto che di fini particolari. Secondo questo punto di vista la libertà consiste nella nostra capacità di scegliere i nostri fini. Sia i liberal che i conservatori americani di oggi discutono nell’ambito di questa definizione di libertà.
Non è sempre stato così. Sotto l’influsso della fede protestante e della sua espressione nei miti unificanti americani la politica non veniva considerata neutrale riguardo ai valori e ai fini espressi dai cittadini. La politica era anche tenuta a servire uno “scopo formativo”, cioè doveva aiutare i cittadini a coltivare quelle qualità personali che sono necessarie per l’autogoverno. Ma in una società in cui c’è una molteplicità sempre più grande di convinzioni filosofiche, religiose ed etiche come può la politica servire questo scopo senza favorire gli uni sugli altri e quindi limitare la libertà dell’individuo di scegliere i propri fini? La risposta è la repubblica procedurale. Il problema che essa comporta è la diminuzione crescente del senso di comunità, del sentirsi un popolo, poichè tale esperienza richiede scopi comuni che unifichino. In questo modo quella che doveva essere una risposta al problema delle divisioni fra culture diverse finisce con l’aumentare le tensioni generate da tali divisioni. La politica diventa una lotta sempre più feroce fra interessi contrastanti.
La “repubblica procedurale”
lascia insoddisfatti Tuttavia i liberal difendono la neutralità sulla base di una distinzione fra ciò che è “giusto” e ciò che è “bene”. Le persone sono libere di perseguire qualsiasi bene esse liberamente scelgano, ma solo nell’ambito di un contesto di diritti e di libertà basilari che sia veramente equo, cioè che consenta a tutti gli individui e i gruppi di fare ciò senza restringere la libertà degli altri. Questa visione presuppone un’idea di persona umana come un soggetto che precede e non dipende dai suoi scopi. Ciò implica un’opposizione ad ogni concezione che considera la personalità umana come legata a beni non scelti liberamente, per esempio a scopi dati dalla natura, da Dio, dalla famiglia, dalla cultura, dalla tradizione. Una personalità così “appesantita” mancherebbe della libertà di essere pienamente ciò che potrebbe essere. Lo Stato non deve favorire in alcun modo questi legami “pesanti”. Come persone libere da questi pesi dobbiamo rispettare la dignità di tutte le persone, ma al di là di questo dobbiamo loro solo ciò che abbiamo accettato di dovere loro attraverso alleanze volontarie o “partnership”. Ma questa idea della libertà personale trova corrispondenza con l’esperienza di quel che significa essere una persona umana? L’appartenenza secondo il generale Lee Recentemente, in uno splendido libro su questo problema, L’insoddisfazione della democrazia di Michael J. Sandel, ho trovato la seguente citazione di Robert E. Lee, il famoso comandante delle forze sudiste durante la Guerra Civile. Prima della Guerra Civile, Lee era un ufficiale dell’armata dell’Unione ed era contrario alla secessione degli Stati del Sud. E tuttavia, quando la guerra apparve inevitabile, egli concluse che i suoi obblighi verso lo Stato della Virginia avevano la precedenza sui suoi obblighi verso l’Unione e quindi sulla sua opposizione alla schiavitù. Così egli scrive:
“Con tutta la mia devozione per l’Unione non sono stato capace di decidermi ad alzare la mia mano contro i miei parenti, i miei figli, la mia casa… Se l’Unione sarà dissolta e il governo distrutto tornerò allo Stato della mia nascita e condividerò le sventure del mio popolo. Non estrarrò più la mia spada se non in sua difesa”. Il dilemma di quest’uomo non può essere capito se non lo si riconosce come un dilemma morale che ha toccato la sua più profonda esperienza di identità. Chi fra di noi, facendo attenzione a queste originali, primordiali esperienze dentro di noi può dire che la personalità umana può essere separata dall’esperienza di appartenere a “parenti, figli, casa, ecc.”? E’ semplicemente impossibile separare la mia esperienza di essere una persona da questi legami e responsabilità la cui forza risiede nella mia consapevolezza come essere umano. Ciò avviene precisamente attraverso questa esperienza di appartenere a questa famiglia o città, o nazione, o popolo, on in quanto erede di una storia o tradizione. Per questi motivi ritengo che anche questa giustificazione del liberalismo sia inadeguata perché ci costringe a far violenza a un’esperienza costitutiva dell’identità umana. Dovendo ammettere la validità di questa critica, molti dei miei amici liberal sottolineano la necessità di cancellare la difesa del liberalismo dalla filosofia o dalla metafisica e sostenerla puramente sul terreno politico. La radicale neutralità dello Stato, la priorità del giusto sul bene devono essere difese e sostenute non appellandosi in alcun modo alla moralità, ma in quanto unica, valida risposta politica al fatto che nelle moderne società democratiche la gente è in disaccordo su cosa sia bene. Questi liberal non sono relativisti morali, ma pragmatisti politici. Quando siamo in campo politico dobbiamo quindi mettere da parte ogni obbligo morale o religioso, ogni legame ed attaccamento, anche se, come individui, li teniamo in considerazione nelle nostre libere scelte.
Pragmatismo liberal, anticamera del moralismo Ancora una volta il problema di questa posizione è che non corrisponde all’esperienza: se sono sicuro che le mie convinzioni morali o, diciamo, religiose sono vere, posso veramente separarle del tutto dalla mia identità politica? Non c’è proprio nessuna convinzione personale che prevalga sul desiderio pragmatico di sostenere la cooperazione tra i membri della società? E se convinzioni di questo tipo esistono, non faccio forse violenza al mio essere più profondo se le metto da parte per motivi pratici? Sembra che Sandel sia nel giusto quando scrive che “una repubblica procedurale non può essere portatrice delle energie morali di una vita democratica vibrante. Essa crea un vuoto morale che apre la strada a un moralismo meschino ed intollerante. E non è in grado di coltivare le qualità di carattere che rendono i cittadini capaci di partecipare all’autogoverno”.
Si tende oggi ad identificare come “democratico” il relativista, qualunque versione del relativismo egli viva, e si tende quindi ad identificare come “antidemocratico”, intollerante o dogmatico, chiunque affermi un assoluto. Ma, come abbiamo visto, questo relativismo che si trova necessariamente nella repubblica procedurale liberale (a dispetto anche di ogni esplicito diniego di esso) non riesce a rispondere a tutte le dimensioni dell’umana ricerca di compimento personale, e crea una spaccatura proprio nel cuore della persona umana. Non c’è da meravigliarsi che Sandel scriva di “insoddisfazione della democrazia”.
Perché i liberal non devono temere Per ripetere quello che ho detto all’inizio, in quanto persona religiosa affermo la Realtà dell’Assoluto. E da cristiano affermo che questo Assoluto è diventato carne umana, presente nell’umanità di Gesù Cristo e nella concreta comunità storica chiamata Chiesa che costituisce il suo Corpo Risorto, che rende sempre presente per tutte le generazioni l’avvenimento dell’Incarnazione come evento totalizzante, che è rilevante per tutti gli aspetti della vita umana e personale, inclusa la dimensione politica, perché corrisponde pienamente (e addirittura deborda) a tutte le esigenze originali del cuore umano. Come possono i miei amici liberal non percepirmi come una minaccia per i requisiti di una vita politica liberale? Non mi vedono come una minaccia, immagino, perché probabilmente ho dimostrato loro che capisco perfettamente le loro preoccupazioni e i loro dilemmi, perché li condivido completamente.
Io accetto la fede cattolica perché l’Assoluto che essa proclama non è l’Assoluto temuto dai liberal. Ricordo il tema del Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini: “L’ignoto genera paura; il Mistero genera stupore”. Secondo me, la ragione per cui vediamo un conflitto tra Mistero e libertà è che confondiamo il Mistero con l’ignoto. Perciò ci sentiamo minacciati dalla nozione di un Assoluto, di una Trascendenza, di un’Eternità perché sospettiamo che il nostro limite di creature legate allo spazio, al tempo e alla storia non possa sopravvivere a un incontro con tale Assoluto. Mi pare che finché il Mistero viene identificato con l’ignoto, con ciò che sfugge al controllo razionale, con ciò che non può essere fatto, è comprensibile che una cultura incapace di vedere l’universalità al di fuori di tali categorie, rigetti completamente ogni concetto di un’appartenenza che trae origine da tale Mistero.
Umiltà del Mistero Cosa si può sapere di questo Mistero, diverso da tutto ciò che è “ignoto”, il cui intervento nella storia non impedisce un impegno per la democrazia e il rispetto per la libertà di coscienza individuale? Questo problema riguarda sia gli ebrei che i cristiani. Vorrei perciò accennare al punto di vista di un filosofo ebreo, Emmanuel Levinas. Egli pone il problema della presenza del Mistero nella storia nei termini seguenti: “Come possiamo affermare la comunicazione fra i due ordini di fronte a un universo in cui tutto è Dio, in cui tutto è mondo? Come è possibile lo stravagante movimento verso Dio senza minare l’unità dell’ordine che lo rende possibile, come in una lotta interplanetaria?”. L’intersezione del Mistero con la storia sarebbe percepito come una radicale perturbazione del suo ordine, che è necessaria se vogliamo prendere sul serio la sua incarnazione (o come la vita di un popolo o come un uomo singolo). Ma quale sarebbe il profilo, la forma di questa perturbazione se deve esser quella dell’Eterno, Trascendente, Divino Mistero? Quale modo di essere nella storia può soddisfare questi criteri? La risposta di Levinas è l’umiltà. Queste sono le sue parole: “L’umiltà disturba assolutamente, non è del mondo. L’umiltà e povertà sono un portare all’interno dell’essere un modo ontologico, e non uno stato sociale. Presentarsi in questa povertà di esilio significa interrompere la coerenza dell’universo”. Il punto è che l’intervento del Mistero nella storia ci richiede di non identificare il Mistero con il radicalmente ignoto opposto alla capacità di conoscenza dell’uomo.
Il Mistero è aperto alla nostra conoscenza, ma non a una conoscenza “razionalistica”. E’ aperto a una conoscenza attraverso lo stupore che risponde a un’iniziativa del Mistero, generando un giudizio che rappresenta l’atto più alto e più sublime della ragione generando un giudizio che rappresenta l’atto più alto e più sublime della ragione che abbraccia il Mistero in un’adorazione amante. Questa “iniziativa” del Mistero non annulla né la ragione, né la libertà ma piuttosto libera la loro capacità di afferrare il “volto” dell’Amore. Questa iniziativa, che Levinas chiama umiltà, è la ragione per cui la paura viene eliminata e il Mistero viene percepito non come l’ignoto minaccioso, ma come il vero compimento delle esigenze del cuore umano.
Naturalmente ciò è assolutamente incomprensibile alla nostra cultura dominante in cui conoscenza è potere, dove il solo “Mistero” riconosciuto è l’ignoto, e in quanto tale minaccioso per coloro che non hanno il potere di soggiogarlo, di abbassarlo, per così dire, al nostro livello per controllarlo. In questa cultura qualsiasi pretesa di appartenenza o di conoscenza di verità assoluta è sicuramente una minaccia alla libertà! Tali verità-pretese, dunque, non sono permesse in questa cultura. Per essa è particolarmente offensiva la pretesa che questa conoscenza della verità sia associata con l’appartenenza a un particolare popolo prescelto che vive secondo i legami e la tradizione generati da tale scelta.
La mistificazione del multiculturalismo Il programma educativo di una cultura in cui conoscenza e potere sono identificati deve per forza cercare di distruggere quei legami e quelle tradizioni che originano nell’esperienza dell’appartenenza. Questo è il caso, ovviamente, della cultura oggi dominante in cui viene evocato il multiculturalismo non per prendere sul serio le implicazioni delle diverse culture umane, ma per distruggere ogni pretesa di una conoscenza della verità che sorga dall’esperienza di appartenere a popoli di tradizione diversa, riducendole a manifestazioni folkloristiche di una varietà di esperienze umane puramente sentimentali. Così, mentre apparentemente apre a tutto ciò che è umano, questo falso multiculturalismo è un altro modo di neutralizzare possibili minacce ai poteri dominanti.
Quando l’appartenenza è il risultato della Incarnazione di questo Mistero nella storia umana, il modo di vivere che ne risulta mostra quell’umiltà e apertura generate dalla forma stessa di incarnazione del Mistero. Questa è la base per un autentico ecumenismo. Tale ecumenismo non è l’espressione della tolleranza generica di un multiculturalismo che non è nient’altro che lo strumento del potere: è l’amore evocato dall’entrata del Mistero nella storia che ci spinge a prendere sul serio e con assoluto rispetto l’esperienza di tutti.
Per la mentalità cristiana la democrazia è convivenza, cioè è riconoscere che la mia vita implica l’esistenza dell’altro. Il dialogo è proposta di quello che io vedo e attenzione a quello che l’altro vive, per una stima della sua umanità e per un amore all’altro che non implica affatto un dubbio o il compromesso su ciò che io sono. La democrazia perciò non può essere fondata su una “quantità” ideologica comune, ma sulla carità, cioè sull’amore dell’uomo adeguatamente motivato dal suo rapporto con Dio.