Da alcuni anni a questa parte alle Nazioni Unite il mondo si va dividendo in due schieramenti contrapposti: da una parte l’Unione Europea, il Giappone, il Canada e gli altri paesi ricchi. Dall’altra il Vaticano e svariati Stati del terzo mondo, chiamati anche “G77”, fra cui i cosiddetti “Stati canaglia”: Iraq, Iran, Syria e Algeria. E gli Stati Uniti? Con l’arrivo del nuovo presidente Bush, sono passati in maniera clamorosa dallo schieramento dell’Ue a quello che accomuna
Santa Sede e paesi in via di sviluppo.
Strane alleanze
Queste alleanze si formano intorno alle discussioni che si susseguono ormai da anni sulle interpretazioni da dare ai diritti umani. Fulcro dei contrasti sono soprattutto le convenzioni riguardanti le donne e i bambini, che coinvolgono le tematiche della famiglia, la cui analisi è oggetto di conferenze mondiali che si susseguono al ritmo di una ogni cinque anni. Sono infatti queste conferenze tematiche la sede oggi di gran parte del potere decisionale dell’Onu, mentre la sua capacità di influenzare i governi e le culture è affidato alle “commissioni di monitoraggio”, alle sue grandi agenzie e alle “Ong” (Organizzazioni Non Governative)accreditate. Scopo di questa maggiore articolazione delle attività sarebbe quello di “organizzare il consenso” e di allargare la “partecipazione democratica”. L’esito reale, invece, è quello di sottoporre a continue reinterpretazioni il linguaggio delle delibere già prese, di aggirare per via burocratica le leggi o addirittura le costituzioni delle nazioni, e diffondere in generale delle politiche che sovvertono i valori tradizionali della quasi totalità dei paesi del mondo.
La posta in gioco
Ogni volta che all’Onu si discute di politiche sociali, la posta in gioco sono i diritti dei genitori, delle donne, delle famiglie e dell’autodeterminazione dei popoli. Ecco dove si formano le alleanze inedite Vaticano-Usa-“stati canaglia”. Da rapporti e documenti delle agenzie e delle commissioni Onu emergono infatti pressioni indirizzate verso i governi nazionali perché intervengano nella cultura, nella legislazione nazionale e addirittura nelle proprie costituzioni per: 1) rendere l’aborto un diritto esigibile anche dalle adolescenti (alla conferenza quinquennale dopo il Cairo si è parlato anche di bambine di dieci anni) e annullare il diritto dei medici all’obiezione di coscienza. 2) Sminuire la figura e il ruolo della donna-madre (infastidisce anche la Festa della Mamma). 3) Sminuire o ridefinire l’istituto del matrimonio. 4) Togliere ogni restrizione alla prostituzione, con la prospettiva finale di darle lo status di un lavoro uguale a qualunque altro. 5) Ridurre l’autorità dei genitori aumentando i diritti autonomi dei bambini. L’Unione Europea, il Canada e gli altri paesi del ricco “Nord” sostengono interpretazioni sempre più anti-tradizionali dei diritti delle donne e dei bambini, mentre la Santa Sede è alla testa della coalizione che tiene fermi i parametri della difesa della famiglia tradizionale. La Conferenza Onu dei Ministri responsabili per la Gioventù, svoltasia a Lisbona, nel 1998 ad esempio, produsse una “Dichiarazione sulla Gioventù” che omette deliberatamente qualunque riferimento al ruolo dei genitori e delle famiglie nell’educazione dei giovani, nonostante i ripetuti tentativi del Vaticano di inserirlo.
Le conferenze mondiali: battaglie (decisive) sull’uso delle parole
Rispetto alle decisioni adottate dall’Assemblea Generale le conferenze hanno la caratteristica di sfuggire al diritto di veto del Consiglio di Sicurezza e di permettere alle Ong accreditate dall’Onu di incidere sugli esiti voluti, tramite gli incontri preparatori, dove si predeterminano il 60 percento dei risultati che usciranno dalla conferenza stessa. La battaglia in queste conferenze di revisione si combatte intorno al linguaggio. Non si parla infatti di aborto ma di “diritti riproduttivi” delle donne. Non si parla di dare la pillola alle bambine, ma di diritto dei bambini al “consulto medico” ovviamente senza il consenso dei genitori. Si cerca di lasciare nel vago ciò che si vuole definire meglio nella pratica, come nella battaglia contro lo sfruttamento delle donne, che si vorrebbe trasformare nella normalizzazione della professione delle prostitute anziché nella liberazione della donna da questa condizione. Se i risultati delle conferenze non coincidono con la volontà delle agenzie e delle commissioni dell’Onu vengono prontamente rimessi in discussione. Le commissioni Onu spingono da anni per rendere universale il diritto all’aborto, al di là delle leggi nazionali. Credevano di spuntarla finalmente alla conferenza sulla donna del 1995 a Pechino, ma sia qui, che nel 2000, alla conferenza di New York, un numero sufficiente di nazioni votarono ripetutamente di “non” includere la protezione dell’aborto nella Convenzione (per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, nota come Cedaw). Ciò doveva mettere fine alla possibilità dell’Onu di sostenere o riproporre questo diritto. E invece no. Come l’Unione europea che fa ripetere all’infinito i referendum che le sono contrari, così l’Onu continua a promuovere l’intervento statale in questa sfera così privata della vita della famglia. Nel frattempo, fra una conferenza e l’altra, ci pensano le commissioni di monitoraggio a imporre ai governi la visione “progressista” dei diritti delle donne e dei bambini.
Le commissioni di monitoraggio
I paesi firmatari delle Convenzioni stipulate vengono continuamente “monitorati” da apposite commissioni le quali permettono a un gruppo ristretto di persone di emanare delle direttive specifiche ai governi dei singoli paesi, chiamandoli a rapporto per interrogarli sull’applicazione delle convenzioni sottoscritte. Si tratta ogni volta di un’occasione per spingere un po’ più avanti la linea di intransigenza rispetto alle culture e alle legislazioni locali. La Commissione di monitoraggio sulla Convenzione per i diritti dei bambini sta facendo pressioni sulle nazioni perché applichino nella maniera più larga possibile i dettami già di per sé disgregatori della famiglia contenuti nella Convenzione stessa. Le istruzioni ai governi sono di intervenire affinché i diritti dei minori non restino teorici ma siano di fatto esercitati. La Commissione scrisse una nota di biasimo al Regno Unito nel 1995, perché in Inghilterra e nel Galles i genitori hanno la possibilità di ritirare i loro figli da parti del programma di educazione sessuale. Il governo britannico era colpevole di «non invitare sistematicamente il bambino a esprimere la sua opinione al riguardo» e c’era il timore inoltre che «queste opinioni possano non avere la dovuta attenzione». Con il Giappone la Commissione ha insistito perché «garantisca il diritto alla privacy del bambino, particolarmente in famiglia». Al Belize la commissione ha detto di istituire meccanismi legali «indipendenti e facilmente accessibili ai bambini» per trattare le loro «lamentele per le violazioni dei loro diritti». Ovvero: lo Stato crei un ente che permetta di sorvegliare i genitori tramite i bambini, i quali devono poter sfidare i propri genitori in tribunale. Il Mali è fra le nazioni più povere del mondo, ma l’Onu vuole che stanzi «risorse umane e finanziarie adeguate per sviluppare la consulenza, la cura e strutture riabilitative per adolescenti, accessibili senza il consenso dei genitori». Il rapporto Onu sull’Italia deprecava la scarsità dei servizi per l’aborto nel Meridione, a causa dell’alta incidenza dell’obiezione di coscienza fra i medici. Le Commissioni Onu si dimostrano anche ostili alla religione. Di fronte agli irlandesi che hanno bocciato l’aborto in due referendum, esse suggeriscono che le espressioni della volontà popolare non sono valide perché la gente si fa influenzare dalla religione. Anche la laicissima Norvegia viene criticata dall’Onu perché esenta alcune comunità religiose dall’ottemperare alla legge sulla parità. In Italia il concetto che lo Stato debba essere subordinato all’Onu e all’Ue sembra normale, ma in altri paesi non è così. L’Australia ad esempio ha preso l’iniziativa di obiettare contro le interferenze nelle decisioni del governo e ha inviato in loco dei comitati di monitoraggio.
Le “Ong”: quale democrazia?
Sulla definizione di “Ong” (Organizzazione Non-Governativa) le opinioni variano, ma c’è sostanziale concordia sul fatto che i numeri, l’influenza e la portata delle Ong hanno raggiunto livelli senza precedenti. Concentrate fino a non molto tempo fa nei paesi sviluppati e democratici, le Ong oggi stanno nascendo come funghi da Lima a Pechino. E stanno cambiando le norme della società, sfidando i governi nazionali e collegandosi con altre Ong per formare potenti alleanze transazionali, che si spingono aggressivamente in settori finora dominati dall’autorità dello Stato nazionale, come il controllo delle armi, le banche e il commercio. L’Onu promuove in maniera diversificata le Ong che accredita, che sono passate dalle 41 del 1948 alle attuali 2500. Non hanno tutte gli stessi diritti e lo stesso status. Ad esempio nel 1994 alla Conferenza del Cairo sulla popolazione, la commissione che redigeva il documento finale era coordinata dal capo dell’Ippf, l’associazione internazionale per la pianificazione famigliare! Kofi Annan afferma che le Ong sono «la nuova superpotenza» che la tecnologia ha reso «i veri guardiani della democrazia e del buon governo ovunque». Esse si presentano come campioni della “società civile”, una categoria che si fa risalire di solito alle argomentazioni di Vaclav Havel, presidente della Repubblica Ceca e di altri che avanzavano i diritti della società civile contro le pretese totalitarie del comunismo. Ma il concetto di “società civile” serviva a distinguere nettamente fra ciò che è pubblico e ciò che è statale, e di rendere il governo più responsabile verso i cittadini. Paradossalmente, invece, in nome della società civile adesso le Ong e l’Onu si preparano ad allargare la portata non della base ma dell’autorità al vertice, di modo che i governi nazionali potrebbero trovarsi a rendere conto del loro operato alle Ong, le quali però a loro volta non devono rendere conto a nessuno, tranne che ai loro soci e finanziatori.
Lo sviluppo del moderno concetto di “salute”
Negli ultimi anni in Italia abbiamo avvertito tutti le profonde trasformazioni semi-distruttive operate nel mondo della scuola e dell’università da un diluvio di provvedimenti calati dall’alto, per via amministrativa. In particolare sono comparse e si sono moltiplicate la serie delle “educazioni”: educazione alla salute, educazione sessuale, educazione stradale… Di pari passo sono proliferate le figure e le agenzie deputate a occuparsi di questa “salute”: il referente alla salute in ogni scuola e in ogni provveditorato, collegato alle opportune strutture educative esterne. Ma uno sguardo alle situazioni degli altri paesi rivela che le stessissime categorie esistono da tempo un po’ ovunque nel mondo. Ci troviamo, come per il concetto di “diritti umani”, in presenza di parole e intenzioni lodevoli, le quali però negli anni sono state messe al servizio di una visione del mondo che vede la società tradizionale come una somma di stereotipi – di cui è ritenuta massimamente colpevole la religione – da accantonare con tutti i mezzi possibili. Per decifrare l’orientamento dell’Onu in fatto di formazione ci si può soffermare sull’affermazione del direttore generale dell’Unesco Federico Mayor, secondo cui «la più importante sfida [per l’Unesco] è quella di ridurre sostanzialmente la crescita demografica attraverso l’istruzione». Sottolinea Mayor che usare l’educazione per controllare la popolazione significa collaborare con l’Unfpa e la potentissima Ippf, che promuove l’aborto e la sterilizzazione delle donne in tutto il mondo. Per capire cosa comportino le politiche di controllo demografico sono disponibili in italiano i testi di Gaspari, Cascioli e Schooyans. Cosa c’entri il controllo demografico con l’educazione alla salute è domanda da girare a persone come il suddetto direttore dell’Unesco. Ciò che preme rilevare qui è la matrice comune di innovazioni che nella scuola italiana sono emerse solo di recente, e invitare ognuno a documentarsi sulle implicazioni di tecniche (tipo le dinamiche di gruppo, i questionari e gli esercizi per assicurare l’autostima e lo “star bene con se stessi”) che hanno dato prova altrove di aumentare il disagio giovanile.