Le elezioni del 2013 hanno come posta anche la scelta del Quirinale, snodo fondamentale degli equilibri italiani: per questo motivo sono state preparate sin dall’autunno del 2009 con iniziative di quelle forze innanzitutto nello Stato che vogliono mantenere un regime di controllo sostanzialmente oligarchico. Qualche nuova recluta dell’elitismo illuminato spiega come in Italia il problema sia che non si combini a sufficienza la sovranità popolare con il rispetto delle competenze, per cui non si raggiunge quel livello di governabilità che in una società moderna è realizzato solo da una poliarchia di poteri. Vero. Ma la causa di questo difetto è l’opposto di quella che certi vanesi maestrini tipo Mario Monti predicano: vi è uno sbilanciamento del potere di certe élite rispetto alle istituzioni della sovranità popolare, non viceversa. Questo sia per quel che riguarda il sistema di influenze straniere mal filtrato da un peraltro piccolo establishment, sia per quel che riguarda l’unico potere “forte” rimasto in piedi, quello finanziario che non pesa tanto per efficacia quanto per pervasività politica, innanzitutto mediatica. E questo sistema di anomalo squilibrio a favore delle élite rispetto alla sovranità popolare ha il cuore in settori della magistratura. In questo senso quel che viene definito il populismo liberaldemocratico berlusconianleghista ha la colpa di non avere tematizzato a sufficienza il problema ma ha il merito di avere in qualche modo resistito lasciando aperta una via. Mentre i tipini alla Monti – si vedano anche le dichiarazioni sul conflitto di interesse mentre ci si concentra sull’occupazione della Rai e sul costruire un consociativismo finanziario come base per l’accordo con Pier Luigi Bersani – sono la via sicura per garantire una disgregazione delle basi popolari della nostra democrazia.
Che la partita sia complessa è dimostrato dall’impeto con cui settori della magistratura si immergono nella campagna elettorale: dal processo Ruby a Bari, da Parma ai soliti ghirigori antimafia. E la questione centrale è oggi la Lombardia, non solo perché è l’Ohio di Bersani (al di là dei voti, quella dove si acquisisce la vera legittimità a governare l’Italia e quella che sancirà il giudizio decisivo sull’opera di Monti) ma perché è quella dove via “sanità” si determina parte rilevante degli equilibri in Rcs e dove a marzo si eleggerà il prossimo Comitato di beneficenza della Fondazione Cariplo. È dentro questo orizzonte che si è organizzata la persecuzione di Roberto Formigoni, con forzature come quelle sulla “non bancarotta” del San Raffaele, particolarmente stridenti rispetto a ben altre “non bancarotte” (si pensi solo alle vicende legate a Luigi Zunino) tenute ben protette anche quando sfiorate dalle disgrazie di Filippo Penati. Il sistematico massacro di Formigoni è stata la via per preparare la candidatura di Umberto Ambrosoli, assai riluttante ma spinto a presentarsi dagli ambienti della Rcs a partire da Piergaetano Marchetti, da quelli bazoliani nonché da quelli intorno alla procura e al tribunale di Milano. Una candidatura debolissima perché l’onesto avvocato non ha neanche un’idea vaga di come governare la Lombardia e ha come unica reale qualità quella di essere figlio di un galantuomo come Giorgio Ambrosoli, ucciso dalla mafia negli anni Settanta per conto di Michele Sindona. Per questo motivo il povero sperduto ha bisogno di essere sostenuto con indagini a senso unico o improvvisate, come quelle sui rimborsi dei consiglieri regionali essenzialmente del centrodestra o quelle sulle quote latte.
Sono evidenti i tanti limiti del leghismo e del berlusconismo anche lombardi ma sono anche chiari di fronte a tutti i cittadini di questa Regione gli ottimi risultati di buon governo raggiunti: chiunque avesse avuto bisogno di curarsi agli inizi degli anni Novanta si sarebbe imbattuto in strutture che pur eredi di una grande tradizione erano sbalestrate da una lunga stagione di gestione iperpoliticizzata e soprattutto ipersindacalizzata che causava gravi problemi ai pazienti. Chi avesse avuto bisogno di curarsi nel Duemila avrebbe potuto godere di un sistema divenuto particolarmente virtuoso per la competizione pubblico-privato, per l’integrazione alla società e per la sua efficienza. Siccome la Regione è innanzitutto la sanità, questo è l’argomento fondamentale per decidere, sapendo che la scelta per il centrosinistra implica un ritorno a condizionamenti (questa volta non più essenzialmente partitico-sindacali ma derivati dal potere finanziario e della magistratura) che non potranno non incidere radicalmente sulla funzionalità del sistema oltre che naturalmente sulla qualità della nostra democrazia. Silvio Berlusconi, Roberto Maroni, la Lega e il Pdl hanno fatto dei bei pasticci anche in Lombardia e se non si andasse a votare sarebbe assai meglio. Ma salvare conquiste reali e tenere aperta la via all’estensione della democrazia è possibile solo con il voto al centrodestra “che c’è” per quanto malandato.