Partiamo da un presupposto, anzi due. (1) Comporre un film biografico (o biopic, una categoria in odore di bestemmia) è opera ardua; (2) tale difficoltà è direttamente proporzionale alla portata del soggetto al centro dell’opera, e Leopardi è sicuramente un personaggio “pesante” da questo punto di vista. Aggiungiamoci come corollario che nessun regista, a quanto ne sappiamo, è obbligato dall’Isis, dalle istituzioni, dalla ex fidanzata del liceo a mettere le mani in una materia così difficile da gestire.
Sbrigate le dovute premesse, procediamo per gradi, salvando il salvabile (non per buonismo: immaginatemi piuttosto come Michael Madsen che tortura Kirk Baltz ne Le Iene, infierendo poco a poco sulla vittima. Se preferite potete anche ascoltare Stuck in the middle with you mentre leggete queste righe). Come tanti hanno sottolineato, il film ha una frattura piuttosto delineata tra la prima parte, che funziona di più, e la seconda più debole. Concordo, ma specificando che ritengo la seconda parte letteralmente disgustosa, un insulto al Cinema e a Leopardi, mentre la prima si limita ad essere solamente brutta. Un peccato comunque imperdonabile, ricordo, se consideriamo (ed è bene tenerlo sempre a mente) la statura della materia con la quale ci si sta paragonando.
Introduciamo un secondo elemento generale, anch’esso da tenere sempre a mente, un principio elementare del Cinema che vorrei diventasse una legge che preveda la pena di morte istantanea per i trasgressori: un film deve durare meno di due ore. Per sforare questo limite devi avere veramente tanti tanti motivi, e comunque devi darmi un capolavoro (che poi è diretta conseguenza di un altro principio assai più basico: il cinema è intrattenimento e bellezza, è l’antitesi della noia, per tanto qualsiasi elemento, ad esempio la durata eccessiva, che possa anche solo minacciare questo principio, va eliminato). Ora, il film di Martone dura 137’. Dueoreediciassette.
Quando vedo un numero più alto di 120 relativo alla durata nelle schede dei film inizio ad avere dei giramenti di testa, presagio di altri giramenti posizionati più in basso a livello anatomico, ma ben più in alto nella scala dei fastidi esistenziali. La “prima parte”, quella degli studi “matti e disperatissimi”, dura all’incirca un’ora. Più o meno 50 minuti in più di quanto sarebbe dovuta durare. Il concetto della prima parte è: io, Giacomo Leopardi, cresciuto con i miei amati fratelli all’ombra di un padre amorevole ma severo che mi ha indotto ad uno studio rigido e perpetuo, soffro per la vita angusta di Recanati e anelo ad un’esistenza spensierata e felice, privatami dalla mia condizione fisica e geografica.
Se l’ho spiegato io in una frase non vedo perché Martone si debba prendere un’ora del nostro tempo. Tanto più se lo fa con una regia piatta, un collage di sequenze accostate senza garbo, una fotografia priva di personalità, che indugia sui volti monoespressivi e macchiettistici dei protagonisti, una colonna sonora che si crede d’avanguardia perché miscela motivetti inquietanti da thriller, musica sacra e musica moderna, senza che ve ne sia giustificazione alcuna, quindi con il mal celato intento di colpire, e con un didascalismo stucchevole che scade nel ridicolo quando il giovane Leopardi osserva la dirimpettaia Silvia mettere in scena le precise immagini della nota poesia (si affaccia dal balcone del “paterno ostello”, tesse “la faticosa tela”, poi si ammala “di chiuso morbo” tossendo proprio là, di fronte alla macchina da presa e agli occhi turbati di Giacomo nostro).
Per un’ora Elio Germano si agita emaciato sgranando gli occhi, tremolante e rattrappito, regalando smorfiette e faccette appena tollerabili. Il colpo di grazia arriva però sul finire di questa prima parte. Non contento di aver declamato La sera del dì di festa con la stessa convinzione del rampollo di famiglia che a Natale recita la poesia davanti ai parenti dondolandosi sulla sedia (ovviamente far declamare direttamente le poesie al protagonista crea un inevitabile effetto kitsch insopportabile. Sarebbe bastato aggirare l’ostacolo con una voice over dello stesso attore che parlasse sopra le immagini – magari non a mo’ di didascalia – ma era troppa grazia da chiedere a un film stilisticamente così sciatto); dicevamo, non contento di aver massacrato La sera del dì di festa il nostro Martone, probabilmente traumatizzato da un’infanzia infernale picchiato dalla maestra zitella per non aver imparato a memoria il componimento, decide di fare a pezzi L’infinito.
La scena è come l’avreste pensata dei vostri peggiori incubi: Elio Germano si muove vacillando sul colle cercando di gettare lo sguardo al di là della siepe, declamando verso dopo verso il noto sonetto in freestyle, quasi fosse un rapper ante litteram. Senza grazia, senza classe, senza niente.
La seconda parte riprende 10 anni dopo (una bella scritta in sovrimpressione a prova di scemo con font Times New Roman ce lo dice subito), troviamo il nostro nel letto di un appa universitario mentre Raz Degan gli porta dei biscotti. Occhiatine troppo prolungate insinuano il sospetto di una vaga allusione omosessuale (come d’altra parte non manca l’onanismo nella prima parte del film. Meno male che l’intento era “ribaltare i luoghi comuni”). Il gioco della seconda parte è: rendiamo Leopardi sempre più gobbo ad ogni scena. A un certo punto Martone non sa più cosa inventarsi perché Elio Germano raggiunge un’inclinazione che sfida le leggi della fisica, e si ha il sospetto che il regista bari un po’ e ogni tanto riporti l’asse della schiena dell’attore indietro di qualche grado per poter continuare il giochino.
Contemporaneamente assistiamo all’evoluzione di Leopardi, un Leopardi un po’ scemotto, che si mangia di gusto il suo gelato, pensa solo alla patata e somiglia vagamente a Willy Wonka, con il pastrano verde e il cilindro sulla testa. Siamo in completa labirintite registica, priva di qualsiasi compattezza, le varie sequenze si susseguono come fucilate sparate da un cieco mettendo in contrasto circa due miliardi di frame in cui Leopardi è un povero storpio sfigato, a due frasi buttate lì in cui rivendica un’infelicità connaturata alla condizione umana, e non derivata dalla sua menomazione. Peccato che la bilancia penda dalla parte di “Leopardi povero sfigato” e credo che un liceale medio possa portarsi a casa il ricordo di un omuncolo rattrappito in fissa per il sesso, consolidando probabilmente l’idea che già si era fatto sui banchi di scuola.
Le perle registiche continuano: la vita di Leopardi sembra unicamente costellata da gente che lo ferma per porgli quesiti inutili, gli cita questo e quell’autore, e per far vedere che alla festa ci sono proprio tutti, quando Leopardi si imbatte in un letterato noto il regista non manca di farlo chiamare per nome, con un effetto artificioso e ridicolo (del tipo “Senti, TOMMASEO, non parlare così”). Un incubo incrociato con il Dialogo della Natura e di un Islandese, manda in scena un golem femminile che dovrebbe impersonare la natura, che gigantesco si staglia nel deserto sfidando il nostro Giacomino, sempre più gobbo e fuori fuoco, in un delirio grottesco. Continuano le inquadrature lunghe e immotivate, i fondali di cartapesta, le faccette ammiccanti, mentre la malattia galoppa e la noia pure.
Nel finale Martone, dopo aver registrato i più banali stereotipi della napoletanità e della devozione cattolica popolare, cerca un composizione del quadro quasi d’autore, in scia a Malick, con cieli tersi e il Vesuvio in eruzione. Giacomo oramai immobilizzato contempla il cosmo ponendosi domande esistenziali, mentre, come banalità richiede, la macchina da presa indugia sulla colata lavica mentre il poeta snocciola La ginestra. Un tributo eccessivamente offensivo per un genio della letteratura e dell’umano che non sopportava “la noiosa esistenza quotidiana, nella quale i minuti si susseguono ai minuti”.