Non so se come per l’alcol anche per l’amicizia esistano diverse gradazioni. So però che io venivo da Rimini (e non era Bobby Sand ma soltanto un vero proletario), loro erano veri grandi reporter tedeschi, venuti chi da Berlino, chi da Colonia, chi addirittura da Singapore, rientrati ieri l’altro da un’avventura in Oriente durata un decennio, e adesso sono qua, per esempio Johannes e Germana Von Dohnanyi, a conversare con Adriano Sofri, due anni e sette mesi dopo una stagione di carcere e schiavettoni. Essendo l’ex leader di Lc agli “arresti comunali” in località Tavernuzze, una manciata di chilometri a sud sulla Cassia dall’uscita autostradale di Firenze Certosa, l’attesa riapertura del processo con udienza fissata per il prossimo 20 ottobre a Venezia, l’ex di Lc e di tante altre cose le trascorre nella sua casetta di campagna, ficcata lungo un declivio un poco aspro e fuori mano. Il baccano delle rondini e l’assenza di una filosofia portatile, faranno anticipare ad Adriano una battuta a commento dell’intervista a don Luigi Giussani pubblicata da Tempi la scorsa settimana: “Giussani è stupefacente, la sua nota dominante è sempre quella donna, e sempre nelle sue parole riecheggia Leopardi. Però quel suo aut-aut non lo capisco. Anch’io sento la realtà come segno, eppure continuo a non credere in Dio. E dunque?”. Dunque mi sembra di capire che l’aut-aut di Giussani non indica il discrimine tra credere e non credere. Anche chi mette le autobombe e Gerusalemme crede in Dio, anche il Demonio, per ovvie ragioni crede e ha timor di Dio. Ne riparleremo, caro Adriano. Ma con ciò almeno questo è assodato, anche i tuoi più irriducibili nemici ora sanno che Sofri almeno non è il diavolo.
C’è il caso Sofri, ma ci sono anche un’infinità di casi giudiziari che restano nell’anonimato. L’impressione generale è che se non ha santi in Paradiso il cittadino che entra nelle maglie della giustizia italiana ne esce quasi sempre triturato…
Quello che io ho capito solo di recente, in questa ultima galera, è che nel sistema della giustizia in Italia non esistono regole e quelle che ci sono vengono violate. Finché si continua a utilizzare il termine giustizia si è fuori luogo: i mali della giustizia, i difetti, gli errori, i vizi, le carenze della giustizia. Niente di tutto questo: è qui che bisogna fare il salto. Che la giustizia terrena e tanto più quella statale siano carenti, che la giustizia non sia di questo mondo è una cosa evidente a chiunque. Ma non è questo il problema, non è il vuoto di giustizia. Ma il pieno di ingiustizia. Questo mondo non è carente di giustizia, è gremito di ingiustizia. Prendi il carcere: è un luogo pieno di ingiustizia, solida, sulla quale puoi sederti e ci puoi fare affidamento. È come il problema del male: che il male fosse semplicemente un’assenza, un difetto di bene, al liceo ci credevamo tutti, ma non è vero, non è così. Io parlo proprio dell’esercizio istituzionale della giustizia, che è un esercizio fitto di ingiustizia. Anche quella non voluta – che forse è anche più grave – quella rassegnata, routiniera, abitudinaria, quella dei medici della mutua. Vengono 6mila disgraziati, come vuoi che io possa fare una visita di più di 3 minuti per ognuno? Vengono 15mila extracomunitari magrebini, che pretendi che davvero ci sia l’avvocato in aula? C’è l’avvocato d’ufficio tal dei tali e basta.
Eppure ci si affida – o ci si è affidati – agli uomini di giustizia come a una sorta di comitato di liberazione nazionale…
Su questo tema ho scritto recentemente un saggio di assai noiosa lettura, pubblicato su Micromega e Paolo Flores D’Arcais (che l’ha equivocato) mi ha anche risposto non capendo cosa volevo dire, dato che io sono anche simpatizzante di alcune iniziative giudiziarie che poi sono divenute fanatiche e megalomani. E comunque, gli spiegavo una cosa che mi sembrava chiara, e cioè che quello che noi chiamiamo fondamentalismo e integralismo islamista in realtà non solo non è un fenomeno religioso, ma è nella sua sostanza un fenomeno di giustizialismo, cioè una reazione alla modernità, all’Occidente, all’America, alle minigonne, a tutto quello che vuoi, che usa questo travestimento religioso ma che ha come bersaglio intimo la corruzione. Per loro la corruzione sono le donne con il viso scoperto, la libertà individuale, tutte le cose che fanno parte di un modello di vita che minaccia la loro vera proprietà, la figlia, la moglie, le pecore. Ma in fondo questa radice giustizialista è comune a tutto il mondo oggi, perché il giustizialismo è la tramutazione di ogni problema civile e di convivenza, di costume, di cultura, in un problema di giustizia.
Il che, a volte, fa intervenirte la giustizia in campi che fino ad allora erano abbandonati alla legge della giungla, d’altra parte però tramuta qualunque fatto, anche di libertà privata, di responsabilità personale, in un campo d’invasione della giustizia. Dunque avevo fatto questo paragone, che non era però etico, di valutazione morale, ma dimostrava questa specie di confluenza verso un unico sbocco. Da questo punto di vista i problemi della sanità diventano decisivi, ancor prima del caso Di Bella. Se uno vuole capire il nervo più scoperto che spiega poi, sia nella sua parte apprezzabile, sia nel suo delirio demagogico, il tifo per Mani pulite, lo trova in questa cosa qua: il fatto che c’è quello che sta rubando e non solo, sta rubando sull’ospizio dei vecchi, sull’ospedale tal dei tali.
Dunque le sensazioni che ti succhiano il sangue, che tornano fuori e questa volta chiedono di essere saldate in solido dal potere alternativo che sono i magistrati.
Il problema è che una volta potevi scappare in qualche parte del mondo, adesso non c’è posto al mondo dove puoi salvarti da questa corsa alle mani pulite…
La cosa che a me pare la più decisiva di tutte è che il governo del mondo è impossibile, come sapevano gli antichi greci che possedevano ancora il senso tragico e vedevano le relazioni umane nel loro scacco, nel loro contrario. E questa impossibilità di governo del mondo, di pilotare nella tempesta – per cui come nella tempesta si può solo tentare di mantenersi il più possibile a galla e soprattutto pregare gli dei – non ha fatto che crescere nel nostro mondo così complicato, unificato e globalizzato. Per questo in tutto il mondo prevalgono le misure le istituzioni addette agli interventi a posteriori, curativi, chirurgici, riparatori e quindi non più preventivi. La politica è preventiva, mentre oggi non ha più alcuna lungimiranza. La magistratura è esattamente questo: l’istituzione addetta all’intervento post-factum, come la chirurgia – e non è una metafora – interviene quando ormai il male è incurabile. Quindi non solo non c’è stata prevenzione, ma anche tutte le medicine alternative, le cure dolci hanno fallito: come per la bambina della leucemia, un caso sul quale sarei voluto tornare, dove vergognosamente si è mischiata la questione della medicina terminale e la magistratura che interviene a sanzionare. Per cui paradossalmente la magistratura che dovrebbe intervenire a sanzionare solo casi singoli e che non può giudicare il sistema, diventa invece il potere alternativo.
Dunque è un problema di crisi planetaria e generalizzata della politica?
È un problema di democrazia. La democrazia è l’unica forma accettabile finora trovata di governo, ma avendo accorciato così spettacolarmente i tempi fra delega e esercizio della delega, rendendoli ininterrotti con il ricorso al sondaggio permanente, non c’è più possibilità per i politici di affrontare i problemi con una distanza anche lontanamente proporzionale alla loro portata. Il governo non c’è, c’è solo questa ininterrotta rincorsa all’azione chirurgica. Quella che ad un certo punto è diventata incapacità di governo di lungo periodo ed è diventata solo normale amministrazione del giorno per giorno, si è tramutata in politica dell’emergenza permanente. Qualunque problema prima era considerato quotidiano e ordinario, ora è emergenza. Per cui se non ti scrive più la penna non devi semplicemente caricarla, è “emergenza inchiostro”.
E diventa davvero l’emergenza inchiostro: perché vai a trovare l’inchiostro, e come si fa a trovare l’inchiostro, ed è sparito l’inchiostro…
così l’emergenza macchina, l’emergenza monnezza, l’emergenza magistratura… tutto è emergenza. Ed è la verità: ogni volta che un problema si presenta sembra sia il problema sul quale il mondo finirà. È possibile che in Italia, un paese che, oltre che ad essere ricco, è anche incredibilmente confortevole, la gente dica continuamente: “Qui non si può più andare avanti”? Una volta, tornavo da Sarajevo in guerra, e sul taxi il taxista mi chiede: “Come va a Sarajevo? Un casino, eh? Anche qui in Italia non si può più andare avanti!”. La magistratura è la regina di questo mondo perché è la chirurgia di questa guerra promossa sul campo. Ed ha lei stessa bisogno di convincersi – perché i danni della buona fede sono peggiori di quelli della malafede – di compiere non un semplice mestiere pagato dallo stato, ma una missione fatale: Tangentopoli, il doping sportivo, il cancro.
Però quando c’è un’emergenza seria, come nel caso terremoto nelle Marche e in Umbria, sembra che i problemi non si risolvano neppure con il ricorso alla “politica dell’emergenza”.
Ma certo, perché una politica seria secondo me può funzionare solo con un minore controllo da parte dello stato e con una maggiore delega – ma reale, effettiva – a persone che siano rese responsabili a termine. Mentre sta succedendo il contrario. Io so che un paese civile dice a un signore o a una signora qualunque: “C’è il problema del terremoto in Umbria. Occorre che entro il tal giorno non ci siano più vecchi che si suicidano a 83 anni dentro ai container”. Ero in galera, passa un’estate, poi un inverno e quelli stanno ancora nei container? Io credo che le persone siano rassegnate in parte, in altra parte egoiste ma, se sollecitate, sono pronte – per esempio questo volontariato responsabile. Il vero problema della democrazia è che non riesce più a fare appello alla responsabilità delle persone. Diventa un sistema di irresponsabilità che paradossalmente riproduce i guai del socialismo reale. Allora tu devi poter dire: “Signore, tu sei libero di fare quello che ti pare. Con questi mezzi che ti diamo, che sono quelli che è possibile darti, decidi tu se ce la puoi fare, torna tra due anni e dicci cosa hai fatto”.
Ma non ti sembra che, anche nel caso del terremoto, stato e burocrazia abbiano scoraggiato l’iniziativa di persone e soggetti sociali che volevano assumersi le responsabilità di rispondere ai problemi della gente?
Senz’altro, lo sanno bene anche loro. Poi ci sono anche gli interessi corporativi, perché tutte queste cose che non funzionano hanno degli interessi costituiti, le burocrazie, per cui le cose devono durare così…
Stessa cosa è accaduta con la Missione Arcobaleno per cui viene fuori che 900 container marciscono a Bari…
Tra l’altro questo enorme magazzino aveva sopra una scritta: “Arcobaleno”, di modo che tutti i passanti sapessero che tutte le cose stavano lì! C’è un’insegna che sembrava Hollywood. Sono matti, e poi ognuno di noi dice: “Ma guarda te, io in galera ho raccolto tutti i soldi di quei disgraziati che per dare 5mila lire si sono svenati”. Ma anche in questo caso io continuo a pensare che l’insipienza abbia dilapidato più della disonestà.
Hai accennato a una crisi della democrazia, nell’epoca in cui le democrazie occidentali sono appena uscite vincitrici da un braccio di ferro con un tiranno dei Balcani.
Questa democrazia è molto a rischio, tanto è vero che tutte le tendenze vanno in direzione plebiscitario-bonapartiste. Decidere se un presidente della Repubblica o della Regione si elegge direttamente o no, dovrebbe essere un problema tecnico istituzionale. Invece viene presentato come una scelta strategica, un problema morale: si creano partiti, si rompono amicizie. La democrazia è assediata dall’incapacità di offrire al mondo non solo non democratico, ma anche anti-democratico, una vera e convincente dimostrazione di forza. Il vero problema del Kosovo ai miei occhi era che la democrazia che ha deciso – e ha fatto molto bene – di non lasciare che perlomeno in questa parte del mondo che è nel suo territorio si possano deportare i popoli, dopo averlo deciso, adopera mezzi tali da suscitare lo sdegno e l’antipatia, se non l’odio della popolazione del luogo.
E cosa avresti fatto tu se avessi avuto il potere di decidere?
Non so bene cosa si sarebbe dovuto fare. Non so quello che sarebbe successo con certezza. So quello che pensavo si dovesse provare, ma sono stato felicissimo di non avere il potere di decidere. Prima di tutto se io voglio difendere un popolo dalle sopraffazioni di un altro che è meglio armato e più potente, l’ultima delle cose che devo fare ricordandomi tutti i precedenti è di allontanare i testimoni. Mai mandare via gli osservatori dell’Osce, ma mandarne molti altri. Autorizzare tutti i volontari e le organizzazioni non governative a entrare. Annunciare di entrare con truppe internazionali di terra – dichiarandolo – in modo pacifico. Il che molto probabilmente avrebbe portato alla reazione, la più dura e potente, della Serbia o secondo me, più probabilmente, quella puntuale e guerrigliera contro questa cosa. Quindi commisurare – come sempre deve fare un’azione di polizia – la risposta alla trasgressione, alla provocazione e alla violenza messa in campo dagli altri. In ogni caso tu avresti potuto mettere in campo quella gigantesca strapotenza di cui disponevi, ma graduandola, misurandola lungo questo processo e lasciando ogni volta la responsabilità agli altri. Invece da un giorno all’altro si è passati dal niente al tutto aereo e si è diventata l’odiosa superpotenza celeste, lasciando la terra ai banditi, lasciando gli agnelli ai lupi, cioè tradendo la lezione principale della seconda guerra mondiale: nel momento stesso in cui tutti dichiaravano di trarre la lezione di quel conflitto si sono dimenticati che si è compiuta la seconda guerra mondiale lasciando sterminare gli ebrei nei campi, ritenendo allora che su quella cosa non si poteva fare nulla. La scoperta della modernità è esattamente il soccorso a chi è minacciato, quella che chiamiamo con un brutto nome “ingerenza umanitaria”. Comunque di tutte le cose negative dell’operazione in Kosovo io considero la più irreparabile l’aver rimesso in circolazione ufficialmente la parola guerra: c’è stata una guerra in Europa, si è detto. La nostra generazione ha permesso che si compisse questo crimine linguistico irreparabile, cioè che quando io avevo 56 anni c’è stata una guerra in Europa. Tutti sembrano non sentire lo scandalo enorme di questa parola. Non c’è stata una guerra: è successo che una strapotenza ha usato come una ubriaca fradicia la propria strapotenza per punire un capopolo figlio di mignotta – e così facendo punendo per intero quel popolo e molte altre persone innocenti – invece di impiegarla in modo adeguato per il fine che si proponeva e per la morale che predicava. La stessa proporzione di forze e tecnologie che è stata adoperata nel deserto dell’Irak uccidendo migliaia di disgraziati senza risolvere nulla.