
Stavolta che potrebbero farcela, gli oppositori di Recep T. Erdogan stanno facendo il possibile per non vincere le elezioni presidenziali e politiche previste per il 14 maggio p.v., e quindi perdere un’occasione storica per mettere fine al ventennale regno del “sultano”.
Dopo lunghe trattative che a un certo punto hanno conosciuto una drammatica rottura, i sei partiti che hanno formato una coalizione contro il presidente uscente hanno selezionato il loro candidato comune per le elezioni presidenziali. Hanno scelto la personalità politica più grigia nei ranghi dell’opposizione, il segretario del Partito popolare repubblicano (Chp, erede del Partito del Popolo fondato nel 1923 da Kemal Ataturk e per molti anni partito unico del paese) Kemal Kılıçdaroğlu.
E siccome la decisione aveva inizialmente provocato la defezione dalla coalizione del partito più importante dopo il Chp, e cioè il Buon Partito (Iyi) di Meral Akşener, già ministro degli Interni nella seconda metà degli anni Novanta, per far rientrare la crisi e mettere tutti d’accordo la coalizione ha stabilito che, se sarà vincitore, Kılıçdaroğlu sarà attorniato da ben sette vice presidenti! Ovvero i cinque leader degli altri cinque partiti della coalizione più i due più importanti sindaci affiliati all’opposizione, cioè quello di Istanbul Ekrem Imamoglu e quello di Ankara Mansur Yavas, entrambi appartenenti al Chp. Non male, per un cartello elettorale che nel suo programma si propone di disfare le riforme introdotte da Erdogan dopo il referendum del 2017, a cominciare dall’abolizione del presidenzialismo.
I guai di Erdogan
Che Erdogan sia politicamente in difficoltà sul fronte interno come non lo è mai stato da quando è salito al potere per la prima volta nel 2003 è sotto gli occhi di tutti: l’anno scorso l’inflazione su base annua è stata dell’85 per cento (quest’anno è scesa al 55 per cento), e all’esasperazione dell’opinione pubblica per la permanenza ormai decennale di 3 milioni e mezzo di profughi siriani sul suolo turco si sono ora aggiunte l’indignazione per i ritardi nei soccorsi alle aree colpite dal terremoto che il 6 febbraio scorso ha causato 46 mila vittime e la distruzione di almeno 100 mila edifici nel sud-est del paese e le accuse di portare la responsabilità politica del crollo di molti edifici che non erano a norma e che avevano beneficiato di un indiscriminato condono edilizio nel 2018, alla vigilia delle elezioni che avrebbero confermato Erdogan a capo dello Stato, carica conquistata nelle presidenziali di quattro anni prima.
Negli stadi le tifoserie di alcune delle principali squadre di calcio di Istanbul (il Beşiktaş e il Fenerbahçe, di cui Erdogan è uno storico tifoso) non temono di cantare slogan antigovernativi. Il controllo sul 90 per cento dei media pubblici e privati, che concedono scarso spazio all’opposizione, e sulle principali istituzioni del paese, dalla Commissione elettorale alla Banca centrale, non appaiono più una garanzia per la permanenza al potere del leader del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp).
I guai di Kılıçdaroğlu
Nonostante tutto questo la vittoria dell’opposizione non è certa ovvero potrebbe dare vita a un esecutivo poco solido e quindi poco duraturo.
La scelta di Kılıçdaroğlu come candidato alla presidenza è criticata da più parti. Le sue credenziali di oppositore sono impeccabili: sono note le sue battaglie contro la corruzione nella pubblica amministrazione, a favore della restaurazione delle istituzioni democratiche e della separazione fra i poteri compromesse dalle riforme costituzionali di Erdogan e di denuncia di scandali che hanno coinvolto esponenti del governo e dell’Akp.
Le controindicazioni riguardano la sua mancanza di carisma (il Guardian lo ha definito «un burocrate libresco», il politologo Selim Koru, indipendente, ha detto di lui che «quando Kılıçdaroğlu parla davanti a una folla, dopo cinque minuti tutti smanettano coi loro cellulari»), l’età (74 anni contro i 69 di Erdogan) e il fatto che appartenga a una minoranza religiosa, quella degli aleviti, una versione turca e sufi dello sciismo: in un paese dove l’80 per cento dei musulmani è sunnita, potrebbe rappresentare un ostacolo non indifferente.
Per queste e altre ragioni la leader del partito Iyi ha cercato senza successo di far deragliare la sua candidatura a vantaggio del sindaco di Istanbul o di quello di Ankara, che appartengono allo stesso partito di Kılıçdaroğlu, ma in tutti i sondaggi risultano più conosciuti e apprezzati di lui da parte degli elettori.
Altri problemi dell’opposizione
Non sono questi gli unici problemi della coalizione dell’opposizione (che si chiama Alleanza della nazione, mentre quella che tiene insieme l’Akp di Erdogan e l’Mhp, il partito ultranazionalista braccio politico dei Lupi grigi, si chiama Alleanza popolare): per essere sicuri di sconfiggere il capo di Stato uscente i sei partiti dell’Alleanza della nazione avrebbero bisogno dei voti del partito curdo sospettato di fiancheggiare i combattenti del Pkk di Abdullah Öcalan, che cinque anni fa presentò un candidato, Selahattin Demirtaş che raccolse l’8,4 per cento dei voti nonostante fosse in prigione già da due anni, e ancora si trovi lì.
L’Hdp, Partito democratico popolare pro-curdo, non fa parte della coalizione di sei partiti che sostiene Kılıçdaroğlu, perché Meral Akşener (che alle presidenziali del 2018 aveva raccolto il 7,3 per cento dei voti) ha fatto sapere sin dall’inizio che non si sarebbe mai seduta a un tavolo dove ci fosse anche un rappresentante dell’Hdp, da lei considerato partito fiancheggiatore del terrorismo. Tuttavia Mithat Sancar, il parlamentare che guida l’HDP mentre Demirtaş è in carcere, ha chiesto di poter incontrare Kılıçdaroğlu per capire se è possibile indirizzare i voti dei suoi elettori sul candidato dell’Alleanza della nazione; diversamente, il partito presenterà un suo candidato.
L’eventuale summit potrebbe di nuovo far saltare la coalizione anti-Erdogan: il partito Iyi, presentato sui media occidentali come nazionalista e liberale, è considerato dai curdi un partito di estrema destra; effettivamente la sua leader Meral Akşener lo ha fondato nel 2017 dopo essere uscita dall’Mhp, (il partito dei Lupi grigi) nel quale aveva militato per quindici anni.
L’appoggio dell’Arabia Saudita
Per confermarsi a capo del paese Erdogan conta sulla friabilità della coalizione avversaria, che riunisce socialdemocratici, ultranazionalisti, liberali e islamisti che non lo amano, e sull’appoggio dell’Arabia Saudita, con la quale i rapporti sono migliorati dopo che Ankara ha accettato di insabbiare il caso Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso all’interno del consolato saudita a Istanbul nell’ottobre 2018.
Qualche giorno fa il governo saudita ha depositato 5 miliardi di dollari presso la banca centrale della Turchia al fine di stabilizzare i parametri macrofinanziari del paese.