La rete idrica in Italia perde il 37,4 per cento dell’acqua che scorre all’interno delle tubature, secondo l’Istat. Uno spreco notevole, che non sorprende affatto Antonio Massarutto, docente della facoltà di Economia presso l’Università di Udine ed esperto di politiche ambientali e servizi pubblici locali. Come spiega a tempi.it Massarutto, se la rete di distribuzione idrica italiana è un colabrodo, è colpa della totale «assenza di investimenti» da parte del settore pubblico. Un grave ritardo, dovuto anche alla vittoria del “sì” al referendum sull’acqua “pubblica” del giugno 2011.
Massarutto, perché perdiamo per strada il 40 per cento dell’acqua?
Occorre notare che le perdite della rete idrica nazionale sono calcolate dall’Istat come differenza tra la quantità di acqua immessa in rete all’origine, un dato noto, e quella che poi viene effettivamente fatturata dai gestori. Ciò significa che, in realtà, il dato sull’acqua persa per strada contiene sia l’acqua effettivamente persa, sia l’acqua che non è stata fatturata per le più svariate ragioni: per assenza di contatore, deficit di fatturazione, utenze abusive, piuttosto che perdite commerciali o altro. E l’Italia, da questo punto di vista, vive ancora una profonda frattura tra il Nord e il Sud del Paese, dove sono più frequenti queste situazioni.
Qual è, dunque, il reale stato di salute della rete di distribuzione idrica italiana?
Per conoscerlo con precisione sarebbe meglio considerare il dato sulle perdite tecniche. Che è quello che più di tutti aiuterebbe ad evidenziare il livello di manutenzione della rete. Purtroppo non è un dato di cui l’Istat può facilmente disporre, perché bisognerebbe chiederlo ad ogni singolo gestore. Il regolatore ha iniziato a farlo per uniformare le banche dati, ma il processo non è ancora compiuto.
Cosa ci comunica il dato diffuso dall’Istat?
Che l’acqua persa dalla rete idrica italiana non diminuisce, anzi, tende ad aumentare. Ciò significa che il livello di manutenzione delle nostre tubature è piuttosto scadente; ma non mi meraviglio più di tanto, perché se non ci sono investimenti non bastano le preghiere alla Madonna Pellegrina per riparare le tubature. E gli investimenti pubblici sulla rete, purtroppo, sono rallentati dopo il referendum sull’acqua di tre anni fa. La vittoria del “sì” ha causato un “effetto freezer” che ha congelato gli investimenti pubblici e ancora siamo qui ad attendere un’inversione di tendenza.
L’ingresso dei privati nella gestione della rete cambierebbe qualcosa?
Il tema non è innanzitutto quello di scegliere tra pubblico o privato, ma di dare il giusto peso nel fissare le tariffe anche a quella componente che riguarda gli oneri per investimenti. Se non lo si fa, purtroppo, è normale che non ci siano investimenti. Non possiamo fare finta di non vedere che le tariffe sull’acqua in Italia sono pari alla metà, a volte addirittura a un terzo di quelle della Francia, della Germania e dell’Olanda. Allora è normale che anche gli investimenti sulla rete, sui depuratori e tutto il resto, siano proporzionati a quella cifra. Se la Francia, la Germania o l’Olanda investono 100 per ammodernare e riparare la rete, noi non possiamo spendere più di 30. Questa è la verità.
L’Italia cosa può fare?
In Veneto le aziende partecipate per la gestione dell’acqua, pur mantenendo piena autonomia gestionale l’una dall’altra, hanno deciso di consorziarsi ed emettere un bond collettivo per finanziare gli investimenti. Ciascuna corrisponderà la sua quota per investimenti in base a quanto guadagnerà sulle tariffe. Si tratta di una soluzione molto simile agli eurobond in questi giorni proposti da più parti all’Unione europea. E funzionano, perché hanno permesso alle società venete di finanziarsi al 4 per cento, che è un tasso di interesse molto buono. Se pratiche di questo tipo si diffondessero sarebbe un bene per il Paese.
L’Europa però pare intenzionata ad avviare l’ennesima procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Come se lo spiega?
Occorrono uno sforzo e un investimento notevoli. Anche perché molti interventi che sono stati realizzati a partire dagli anni ’70 si sono rivelati inadeguati. La procedura d’infrazione europea, oltretutto, riguarda una direttiva del 1991. Oggi siamo nel 2014 e ancora non ci siamo adeguati. È ora di cambiare passo.