F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Rizzoli “Aleksjej Fjòdorovic Karamàzov era il terzo figlio di un proprietario del nostro distretto, Fjòdor Pàvlovic Karamàzov, tanto noto ai suoi tempi per la tragica e oscura sua fine, avvenuta giusto tredici anni fa e della quale parlerò a suo luogo”. Gli altri figli di Fjòdor, un vecchio libertino cinico e dissoluto, sono Dmitrij (detto Mitja), che odia il padre per faccende d’amore e Ivan, l’intellettuale ateo. C’è poi Smerdjakov, il figlio illegittimo, malato, che il padre tiene in casa come un servo. Aleksjej è novizio nel convento di padre Zosima. Il vecchio Karamàzov viene trovato morto: l’assassino è uno dei figli…
– … Come vivrai tu? Come potrai tu amarmi? – Esclamò Aljosa contristato. – È mai possibile, con un tale inferno nel cuore e nella testa? No, tu parti appunto per unirti a quelli… e se non è così, ti ucciderai, ma non potrai resistere! – C’è una forza che resiste a tutto! – disse Ivan con un freddo sogghigno.
– Che forza?
– Quella dei Karamàzov… la forza dell’abiezione dei Karamàzov.
– Cioè affondare nel vizio, soffocare l’animo nel putridume, sì, sì?
– Forse anche questo… ma fino ai trent’anni può darsi che io vi sfugga, e dopo…
– E come vi sfuggirai? In che modo vi sfuggirai? Con le tue idee è impossibile.
– Ancora una volta, da Karamàzov.
– Vale a dire che “tutto è lecito”? Tutto è lecito, è così? È così?
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A. Solgenitsin, Divisione cancro, Garzanti Nella corsia di un reparto oncologico, otto uomini, in diverso modo, rispondono alla terribile realtà che li ha segnati imprevedibilmente.
Podduev si schiarì la gola e si volse cautamente a destra. “Qui – annunziò – c’è un racconto. Si chiama ‘Di che cosa vivono gli uomini’”. Sorrise. “Che domanda! Chi saprebbe rispondere?… Di che cosa vive, un uomo?”. Sigbatov e Achmedzan sollevarono la testa dalla scacchiera. Il primo rispose con allegra sicurezza (era convalescente): “Di salmeria. Vettovaglie e equipaggiamento”. Prima della guerra non aveva mai lasciato l’aul e non parlava che l’uzbeko. Tutti i concetti e le parole russe, tutta la disciplina e la disinvoltura li aveva acquistati nell’esercito. “Che altro?” chiese Podduev con voce rauca. L’indovinello del libro, inaspettato per lui, non era facile neppure per gli altri. “Che altro? Su, di che vivono gli uomini?”. “Come, come?” s’ingerì Rusamov che aveva ripreso animo. “Qual è la domanda?”. Efrem, emettendo brevi grugniti di dolore, si volse faticosamente a sinistra. I letti vicino alla finestra erano vuoti, rimaneva il solo villeggiante. Stava ancora rosicchiando un osso di pollo, tenendolo per le estremità, con tutt’e due le mani. Stavano così l’uno di fronte all’altro, quasi il diavolo li avesse messi apposta a confronto. Efrem socchiuse gli occhi.
“Dunque, professore: di che cosa vivono gli uomini?” Pavel Nikolaevic non ebbe difficoltà alcuna a rispondere, non si staccò neanche dal pollo.
“Non v’è alcun dubbio. Tenetelo a mente, gli uomini vivono di ideologia e interessi sociali”.
E staccò con un morso la cartilagine più dolce, quella dell’articolazione. Dopo di che, nulla rimase sulle ossa all’infuori della grossa pelle delle zampe e di qualche tendine. Le posò sopra un foglio di carta, sul comodino.
Efrem non replicò. Lo contrariava che lo smidollato se la fosse cavata così a buon abilmente. Quando quelli lì tiravano in ballo l’ideologia, bisognava chiudere il becco e ciccia.
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Vasilij Grossman, Vita e destino, Jaka Book Una grande opera sul potere. L’esperienza tragica del nazismo e del comunismo testimoniata come un grido disperato nei confronti della volontà sistematica di distruzione della persona e del popolo cui appartiene.
Dalla nebbia emerse il recinto del lager, le file di reticolati tesi tra pilastri di cemento armato. le baracche allineate formavano strade larghe, rettilinee. La loro uniformità rivelava la disumanità dell’enorme luogo di detenzione. Fra miliardi di isbe russe, non ce ne sono, né ce ne saranno mai due perfettamente identiche. Tutto ciò che vive è irripetibile. È impensabile che due uomini, due cespugli di rose selvatiche siano identici… La vita si spegne là dove la costrizione si sforza di annullare ogni peculiarità dei singoli.
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Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, Corbaccio Negli anni della Prima guerra mondiale si consuma il genocidio degli armeni cristiani ad opera dei turchi. La storia della resistenza eroica degli abitanti di alcuni villaggi armeni, raccontata dal grande scrittore di origine ebraica, ricostruisce sapientemente i destini di un popolo e delle persone che lo compongono.
Gabriele fu introdotto da un vecchio, il sagrestano, nello studio del sacerdote… Ter Haigazún si alzò da dietro lo scrittoio e fece un passo incontro a Bagradiàn.
– Varei dovuto venire prima da lei, Ter Haigazún. Lei non sa quale tormento è stato per me tacere.
– Ha fatto molto bene a tacere e dobbiamo tacere ancora…
I giornali non possono ancora pubblicare queste cose, perché non siano risapute all’estero. Inoltre in primavera il lavoro è molto e la nostra gente non ha tempo per andare in giro. Così con l’aiuto di Dio la paura ci può essere risparmiata ancora per qualche tempo. Ma un giorno verrà. Presto o tardi.
– Che cosa verrà? Che prevede, lei?
– Io non prevedo nulla.
– I nostri soldati disarmati, i nostri capi imprigionati! … Tutti i giornali armeni sono stati soppressi ed i negozi chiusi. E mentre noi discorriamo qui, sulla piazza quindici innocenti pendono da quindici forche… che significa questa follia? Chi può capire?
– Io capisco solo che il governo progetta contro il nostro popolo un colpo, quale non osò neppure Abdul Hamid.
Ma siamo proprio assolutamente impotenti? Dobbiamo proprio stendere il capo in silenzio?
– Siamo impotenti. Dobbiamo stendere il capo. Forse possiamo gridare.
Maledetto Oriente col suo khismet, con la sua passività: nello spirito di Bagradiàn guizzò come una saetta…
– Lei è pastore spirituale di molte migliaia d’anime e tutta la sua arte consiste nel nascondere alla gente la verità, così come si tace una sventura ai bambini ed ai vecchi per risparmiarli. È tutto quello che lei fa per il suo gregge? Che fa d’altro?
– Prego… – mormorò Ter Haigazún quasi si vergognasse di rivelare la lotta spirituale che sosteneva giorno e notte con Dio per la salvezza della sua comunità…
– Preghi, Ter Haigazún – e sempre in tono imperioso: – Preghi… ma bisogna anche aiutare Dio! ¶
T. Mann, La montagna incantata, Corbaccio La parabola del giovane Hans Castorp dal sanatorio di Davos, dove si intrecciano malattie del corpo e della ragione, ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale, tragica realtà che spazza via ogni astrazione intellettuale.
Oh, quei giovani con zaino e baionetta, con mantella e stivali insudiciati! Alla maniera beatamente umanistica potremmo osservarli sognando anche altre visioni. Potremmo figurarceli nell’atto di guazzare cavalli alla cavezza in una insenatura marina, di passeggiare con l’innamorata lungo la spiaggia, con le labbra all’orecchia della tenera sposa, o anche nel felice e amichevole compito si insegnarsi a vicenda a tirare con l’arco. Invece giacciono qui col naso nel fango. Che lo facciano con gioia, sia pure in angosce infinite e nell’inenarrabile nostalgia della mamma, è un’altra questione, sublime e umiliante, e non dovrebbe essere motivo di portarli a questo sbaraglio.
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Selma Lagerlof, L’imperatore di Portugallin, Iperborea L’amore di un padre che guarda la figlia, lontana e perduta, con occhi rivolti al suo destino: quello che sembra follia, si rivela “intelletto d’amore”. Come per il figliol prodigo.
E Jan Andersson si trovò lì a tenere fra le mani una piccola cosa calda e tenera avvolta in un grande scialle. Lo scialle era ripiegato in modo da lasciargli vedere il visetto rugoso e le manine avvizzite. Stava lì impalato e si chiedeva che cosa si aspettavano che ne facesse, le donne, di quel fagotto che la levatrice gli aveva messo tra le braccia, quand’ecco all’improvviso sentì una scossa che fece tremare lui e la bambina. Non veniva da nessuna delle persone presenti, eppure non riusciva a rendersi conto se fosse stata la piccina a trasmetterla a lui o lui alla piccina. E subito il cuore cominciò a battergli nel petto come non era mai accaduto prima, e di colpo non si sentì più intirizzito, né triste, né irrequieto, né arrabbiato e gli parve invece di star proprio bene. La sola cosa che lo inquietava era di non riuscire a capire perché il cuore dovesse battere o martellare in quel modo nel suo petto, dal momento che lui non aveva né ballato, né corso, né si era arrampicato su per montagne scoscese.
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H. Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole, Iperborea Fra qualche anno, a Copenaghen potrebbe accadere che un uomo uccida la moglie e nessuno lo voglia ritenere colpevole. Una fortuna? Piuttosto un modo per dire: tu non esisti.
Ma non potete lasciarmi andare così! – disse, rendendosi conto di quanto suonasse patetico. – Io sono colpevole! Di omicidio! Ho ucciso mia moglie! Lo psichiatra batteva in ritirata? Si vergognava di qualcosa? Di cosa? No, lo psichiatra divenne ancora più tagliente.
– Colpevole! – esclamò con un tono di leggero disprezzo. – Lei sa bene che la società sta cercando di abolire una volta per tutte il concetto di colpa! La società! Lo psichiatra pronunciava quella parola come se si trattasse di un valore assoluto e Torben non riusciva a credere di trovarsi davanti allo stesso uomo con cui per settimane aveva discusso di filosofia, di etica, del futuro dell’umanità. Che ne era del filosofo, dell’amante della letteratura, del sognatore?
– Ma io l’ho uccisa! – si sentì ripetere – io l’ho uccisa! – O piuttosto è stato spinto a farlo. Non è la stessa cosa.
– Uccidere è sempre uccidere! Lo psichiatra allora perse la pazienza.
– Occhio per occhio, dente per dente. È questo che vuole?
– No, mio Dio! Ma questo non toglie che sono colpevole di omicidio! – La pensi come vuole – replicò lo psichiatra rassegnato. Si voltò e sparì nel centro amministrativo.
Torben pensò a tutto quello che stava per ritrovare e gli vennero le lacrime agli occhi. Ma disse a se stesso che era ridicolo che un uomo della sua età si mettesse a piangere.
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G. Greene, Il potere e la gloria, Mondadori In qualche posto del Messico insanguinato dalla Rivoluzione, un solo prete è scampato alla persecuzione comunista. È un peccatore, ubriacone, con una figlia lasciata in uno dei tanti villaggi di quella terra. Ma, più grande del suo male, che pure egli avverte come una ferita lancinante, c’è la vocazione cui Dio l’ha chiamato. È questa il suo volto più autentico.
Egli pensò: “Se me ne vado, incontrerò altri preti, andrò a confessarmi: farò atto di contrizione e sarò perdonato: la vita eterna ricomincerà per me”. La Chiesa insegnava che il primo dovere di ogni uomo era di salvare la propria anima. Le idee semplici dell’Inferno e del Paradiso si muovevano nel suo cervello: la vita senza libri, senza contatti con gli uomini istruiti, aveva scarnito la sua memoria, lasciandovi soltanto il semplice abbozzo del mistero.
“Ecco qua” disse la donna. Portava una boccetta da medicinale piena di liquore. S’egli li lasciasse, sarebbero salvi: e sarebbero liberati dal suo esempio: era l’unico prete che i bambini potessero ricordare. Da lui avrebbero preso le loro idee sulla religione. Ma era pure da lui che prendevano Dio sulle loro bocche… Senza di lui, sarebbe stato come se in tutto quello spazio tra il mare e le montagne Dio avesse cessato di esistere.