È probabile che si dovranno aspettare gli esiti delle elezioni presidenziali di novembre per capire quanto e come ha inciso la crisi timorese sulla stabilità del più grande paese islamico del mondo.
Eravamo tanto amici Per il momento, l’unico effetto politico internazionale di un qualche rilievo delle stragi a Timor Est è stato il drastico cambio di rotta della politica australiana. Per trovare una situzione simile a quella che si è creata oggi tra Indonesia e Australia bisogna infatti ritornare ai lontani primi anni ’60, ai tempi di Sukarno, quando i rapporti tra i due paesi erano stati così tesi da degenerare in scontri armati in Nuova Guinea. Ma con il cambio della guardia a Giakarta e l’avvento di Suharto i rapporti mutarono radicalmente. La politica anticomunista di Giakarta piacque in Australia (come in America) e crebbe di importanza dopo la guerra in Vietnam (in cui, ricordiamo, anche l’Australia ebbe parte attiva). Inoltre Suharto preferì un basso profilo internazionale, indirizzando il nazionalismo indonesiano verso l’interno, senza porre problemi al grosso vicino meridionale. In questo modo quando l’Indonesia inglobò proditoriamente Timor Est l’Australia fu l’unico paese di alto profilo internazionale a riconoscere ufficialmente l’annessione. I rapporti tra i due stati si improntarono così sull’accordo non scritto che Giakarta assicurava tranquillità alla frontiera e uno sbocco sul Sud-Est asiatico, mentre Camberra garantiva appoggi e credito sul piano internazionale.
Ovviamente, come le questioni interne australiane non erano affari che potessero interessare gli indonesiani, così gli australiani non mettevano naso nella gestione interna dell’Indonesia. Il tutto accompagnato da prosperi commerci e stretta collaborazione militare.
Il sistema funzionava talmente bene che entrambe le parti consideravano la buona amicizia reciproca come un’ovvietà. In particolare l’Australia, dando per scontata la stabilità dell’Indonesia, non faceva alcuna attenzione alla potenziale polveriera che aveva a fianco, nonostante la crisi economica del ’97 e il vacillante regime di Suharto.
Primo: non perdere la faccia Tutto questo fino a pochi mesi fa, quando la crisi di Timor ha spinto Camberra ad assumere prima una posizione fortemente critica a riguardo della politica indonesiana a Dili, quindi a recitare la parte del principale sostenitore dell’intervento militare, lasciando di stucco Giakarta e dunque attirandosi le ire dell’ex alleato, che sicuramente puntava sul suo tradizionale disimpegno e lasseiz-faire. Perché dunque l’Australia (che non dimentichiamo è stato il primo paese a inviare soccorsi e truppe e che attualmente ha un suo generale al comando delle forze Onu sbarcate a Timor Est) ha voltato le spalle al suo “alleato” indonesiano? La prima e sicuramente meno stringente delle ragioni, è l’affermarsi a livello planetario del principio di “ingerenza umanitaria”. Nel caso di Timor poi, non era possibile riconoscere all’Indonesia il diritto all’uso della forza contro una popolazione a cui la stessa Giakarta aveva concesso un referendum per l’indipendenza svoltosi per di più sotto l’egida e il controllo delle Nazioni Unite. Non è difficile immaginare le pressioni interne e internazionali sul governo australiano, nel caso avesse deciso di appoggiare, o quanto meno lasciar fare, l’alleato indonesiano, considerando che le sue collusioni con Suharto erano già note e stigmatizzate. Il rischio di perdere credito sulla scena internazionale era dunque forte.
Secondo: non perdere il petrolio La seconda ragione sembra essere di ordine prettamente economico e riguarderebbe i supposti giacimenti di petrolio al largo delle coste timoresi. In precedenza esistevano accordi tra il governo australiano e quello indonesiano per l’esplorazione congiunta del tratto di mare in questione. Nel caso che Timor Est diventasse indipendente, tuttavia, questi ipotetici giacimenti rientrerebbero nelle acque territoriali del nuovo paese e l’Indonesia sarebbe tagliata fuori. Dimostrando al nuovo governo timorese che l’esistenza del piccolo stato è garantita dall’appoggio australiano, Camberra si assicurerebbe mano libera sull’esplorazione e sull’eventuale sfruttamento (a questo proposito girano voci – non confermate – secondo cui un rappresentante ufficiale della società petrolifera australiana Bhp, alla vigilia del referendum abbia incontrato il leader indipendentista Xanana Gusmao). Questa lettura sembra però un po’ fantasiosa, anche perché, posto che la politica australiana a riguardo della crisi timorese sia anche condizionata dall’obbiettivo di ottenere il via libera all’esplorazione petrolifera, non si capisce la ragione per cui Camberra avrebbe dovuto attendersi più garanzie dalla difesa delle prerogative di un minuscolo staterello che dal chiudere gli occhi davanti al rinnovarsi, sebbene in forme ben più efferate, di oltre un ventennio di occupazione indonesiana. Ma non si può escludere che il governo australiano avesse messo in conto anche il dubbio che l’Indonesia alla fine sarebbe stata costretta a cedere Dili, e dunque se l’Australia si fosse defilata dall’intervento a difesa di Timor sarebbe poi certamente rimasta tagliata fuori anche dagli affari.
Gli equilibrismi asiatici di Camberra Terza e più seria ragione va rintracciata nel fatto che l’Australia cerca oggi di ritagliarsi una posizione più concreta nel panorama asiatico. Prima della crisi di Timor erano aumentati i suoi rapporti con la Cina (anche sul piano militare con scambi di visite ufficiali a varie basi) e questo nel tentativo di slegarsi dalla sudditanza politica verso gli Usa.
La crisi di Timor ha però costretto Camberra a “riallinearsi” con Washington, assumendo un ruolo da vice-sceriffo là dove lo sceriffo Usa non voleva e non vuole mettere piede. Il governo australiano cerca così di cogliere l’occasione per assicurarsi un ruolo da protagonista nei futuri equilibri asiatici.