«I terroristi dell’Isis sono dei mostri. Non ci hanno lasciato niente in questa terra»

Di Leone Grotti
07 Settembre 2016
"Our Last Stand", il primo film-documentario sui cristiani perseguitati in Iraq e Siria. Il viaggio di un'insegnante assiro-americana nella regione di origine della sua famiglia caduta in mano ai jihadisti

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«I terroristi dell’Isis sono dei mostri. Non ci hanno lasciato niente in questa terra». Trattiene a stento le lacrime un ragazzino iracheno, che ha trovato rifugio nel campo profughi di Mar Elia, a Erbil. Ricorda la sua vita in Iraq prima dell’arrivo dei terroristi islamici, quando «giocavo a calcio tutti i giorni», poi scoppia in un pianto a dirotto. La nonna lo consola ed esprime la sua unica speranza: «Solo Dio può aiutarci». È per superare il dolore e il trauma di tanti ragazzi che padre Douglas Bazi, sacerdote di Mar Elia, ha creato decine di corsi per i giovani, per aiutarli a ricominciare a vivere. «“Che cosa fate? Fuori la gente muore e voi studiate?”. All’inizio mi dicevano così», racconta il sacerdote, «poi hanno capito che era giusto cominciare a ricostruire dai bambini».

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]OUR LAST STAND. Il campo profughi di Mar Elia è solo una delle tante tappe del viaggio di Helma Adde. Insegnante assiro-americana, vive a New York ma la storia della sua famiglia, originaria di Qamishli, nel nord della Siria, è molto più antica e conduce a ritroso fino al genocidio armeno, quando molti membri della sua famiglia furono uccisi dai turchi ottomani. È a lei, ponte vivente tra Stati Uniti e Siria, che il regista e produttore Jordan Allott ha chiesto di diventare protagonista del primo film-documentario sulla tragedia che ha investito i cristiani perseguitati. Il viaggio da Erbil ad Alqosh, in Iraq, fino a Qamishli passando per Hassaké in Siria, ripercorre l’invasione e la crudeltà dello Stato islamico attraverso i suoi effetti. Tra chiese distrutte, città fantasma, milizie in guerra e popolazioni sfollate, Allot compone un grande affresco del dramma e del coraggio dei cristiani. Our Last Stand (In Altum Productions, qui il trailer), uscito nel 2016, ha già vinto quattro premi cinematografici negli Stati Uniti ad agosto e il 9 settembre sarà presentato a Washington D.C. dalla Heritage Foundation.

«QUI C’È SPERANZA». In mezzo agli oltre centomila profughi cristiani di Erbil, cacciati dalle loro case di Mousl e della Piana di Ninive, spicca la figura di padre Douglas. Il suo campo profughi «è diverso dagli altri», testimonia Helma. «Qui c’è speranza. I bambini vanno a scuola, sorridono, fanno tante attività. Padre Bazi non sta tirando su un campo profughi, ma una comunità». I cristiani però faticano ad andare avanti, senza lavoro e senza una prospettiva per il futuro. Tanti «sognano la Germania», altri invece sono decisi a restare ad ogni costo: «Dopo che è caduto Saddam abbiamo conosciuto discriminazione e divisione religiosa», spiega una donna. «La gente improvvisamente voleva sapere se eri cristiano, sunnita, sciita, yazida. Anche prima eravamo discriminati, ma non come adesso. Noi però non abbandoneremo mai le nostre chiese e i nostri santuari. Non lasceremo il posto dove siamo nati».

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TRA LE MILIZIE. Dai campi profughi – dove viene intervistata anche una yazida sequestrata, venduta come schiava, rinchiusa nella «scuola della morte» e scappata dai suoi rapitori – alle città a un tiro di kalashnikov dal fronte, il viaggio di Helma continua in mezzo alle milizie, cristiane e non, formate da giovani intenzionati a difendere «le proprie famiglie, la propria città e la fede cristiana dagli attacchi dell’Isis».

CHIESE DISTRUTTE. In Siria il film ci porta tra le vie di Hassaké, contesa tra Isis, esercito di Assad e curdi, con i cristiani in mezzo che cercano di sopravvivere. A pochi chilometri la protagonista compie una delle rare visite al villaggio cristiano di Tel Nasri, uno dei 35 occupati dall’Isis lungo il fiume Khabur e poi liberato. Chiese distrutte «il giorno di Pasqua», divelte dalle bombe e dalla furia iconoclasta dei jihadisti, case bruciate e dovunque sui muri compare la scritta: «Proprietà del governo del Califfato in accordo con le leggi del Profeta» Maometto.

«PORTARE LA CROCE». Il viaggio si conclude con la visita ai familiari di Helma che ancora risiedono a Qamishli e con il ritorno negli Stati Uniti. Il film ha come obiettivo quello di far conoscere a tutto il mondo la persecuzione che i cristiani stanno patendo in Iraq e Siria. Come dice la protagonista alla fine della pellicola, «i cristiani, come le chiese che ho visitato, sono stati spezzati, uccisi e abbandonati. Ma vanno avanti, con coraggio e con la speranza che noi li aiuteremo a portare la loro croce».

@LeoneGrotti

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3 commenti

  1. Yusuf

    «L’Isis è una invenzione dell’Occidente». Lo afferma monsignor George Abou-Khazen, vescovo della città siriana di Aleppo, francescano della Custodia di Terra Santa. «Noi lo sappiamo bene. Tutti quanti lo sanno – afferma il religioso -e tutti quanti ne sono consapevoli ma tutti quanti fanno finta di non sapere: l’Isis è stato creato dalle potenze occidentali».

  2. Perlo

    Il Papa ha recentemente detto che non bisogna considerare violenti i musulmani, perché sennò bisognerebbe considerare violenti anche i cattolici, visto che ci sono cattolici “fidanzati che uccidono la loro fidanzata”… (letto su Avvenire).
    Come se le due cose fossero paragonabili. L’assurdità di queste affermazioni non ha bisogno di commenti.
    La verità è che ci stanno massacrando e stanno prendendo possesso delle nostre terre, usando l’immigrazione come cavallo di Troia.
    E nessuno, tra i nostri “comandanti”, si preoccupa. Vedo un futuro a tinte fosche per la nostra civiltà occidentale e cristiana.

  3. Menelik

    L’ipocrisia delle nazioni occidentali, America in testa e tutta la Nato, nei confronti del genocidio siro-irakeno è tanta e così bronzea che prima stavano impassibili a guardare nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore foraggiavano con armi moderne chi sappiamo bene tramite i ribelli moderati (terroristi camuffati), e dopo, a cose fatte, fanno anche le lacrimucce.
    Non mi riferivo alla giornalista, lei ha fatto un reportage della sua gente, è sicuramente sincera.
    Avevo capito bene a chi mi riferisco, e gli auguro una batosta tra capo e collo, ma di quelle che lasciano il segno per un bel pezzo, col suo bel premio nobel.
    Speriamo che il Medio Oriente riesca ad entrare tutto nell’orbita politico-economico-militare russa.

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