Te Deum, Scola: Per una vita che vince la morte

Di Angelo Scola
25 Dicembre 2011
Scola ripensa a Shahbaz Bhatti e padre Tentorio, a una moglie che perdona il marito, a un padre che accompagna il figlio nella prova estrema. Testimoni che fanno «sciogliere il sangue» dentro il tempo che passa. Ridestando la memoria di Cristo. Pubblichiamo il Te Deum dell'arcivescovo di Milano, che appare su Tempi 52, in edicola dal 29 dicembre

Come ormai tradizione, Tempi chiude l’anno con un numero monografico di Te Deum. Qui pubblichiamo quello dell’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, che appare sul numero 52 della nostra rivista, in edicola dal 29 dicembre.

Nel Te Deum di quest’anno, se riesco, cercherò di parlare del senso del tempo che passa. Perché questo è un tarlo che rode il cuore dell’uomo. O almeno così mi accorgo io andando avanti negli anni. Il tempo che passa è come un rumore sordo che in certi momenti uno seppellisce nelle cose che fa. Ma sotto sotto resta. Perché il tempo che passa è il più grande interrogativo. Perché il rumore del tempo che passa è il rumore della morte. Che non riesci a eliminare. E allora lì, lì è come se uno potesse misurare quanto è ancora astratto il suo amore a Dio.

«Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto», dice il salmista. Penso che fino a quando un uomo non arriva a esprimere questo grido, un uomo non è ancora fino in fondo situato nella sua maturità. Questo vale per il singolo ma vale anche per la famiglia umana, per la società. Ecco perché bisogna leggere questa crisi in una dimensione più larga. Che non è solo riferita agli elementi di travaglio macroscopici di cui parliamo spesso quando tocchiamo problemi come le biotecnologie, il meticciato di cultura e via discorrendo. Ma è proprio anche riferita alle modalità con cui il “noi” della Chiesa e il “noi” della famiglia umana reggono, correggono, sorreggono una libertà che deve accettare questa sfida. La sfida della contingenza. La sfida che dalla morte devi passare.

È qui che esplode il problema della memoria del senso della vita, per noi cristiani della memoria di Cristo. Cioè della forma nobile, eucaristica della vita, della vita come dono. Dicevo sempre ai miei giovani a Venezia: «Attenti, c’è un test del fatto che la vita è dono: se non la doni, il tempo te la ruba». E siamo di nuovo lì, al senso del tempo. Perciò, affinché il sangue torni a sciogliersi come il sangue di san Gennaro, ci vogliono luoghi e uomini in cui questa memoria sia viva.

Allora, di quest’anno appena trascorso, vengono in mente figure come il ministro pakistano Shahbaz Bhatti o il missionario del Pime Fausto Tentorio, che hanno dato la vita come l’hanno data. Ma viene in mente anche la modalità con cui una madre o un padre accompagnano un figlio nella prova estrema, con cui una moglie perdona al marito (o viceversa) dentro
un tradimento… Insomma sono queste le cose, le cose quotidiane, quelle in cui la memoria si ridesta. Non si ridesta né per un meccanismo, né per una pratica ingegnosa, né per delle tecniche o per degli apprendimenti strumentali. La memoria si ridesta per una vita che vince la morte a tutti i suoi livelli.

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