Te Deum per l’invadenza degli amici veri che non mi lasciano mai tranquillo

Di Marco Bernardi
14 Dicembre 2020
Con il Covid ho visto il rischio di “appaltare” la vita al comodo, alle norme, al dio “Salute”. Invece «rispondere a qualcuno di quel che si fa», come ci insegnava Enzo Piccinini, rende tutto drammaticamente presente
Una scena del film 'Salvate il soldato Ryan'

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Qualche tempo fa, di ritorno da un’esperienza lavorativa di quasi tre anni in un fondo d’investimento negli Stati Uniti, sono stato invitato per raccontare la mia esperienza a un convegno in università in cui si parlava di rischio. In particolare, di capacità predittiva del rischio: l’idea era quella di minimizzare l’imprevedibile dei mercati finanziari tramite algoritmi matematici per ottimizzare i profitti. Non avevo dato molto peso all’evento, ma salito sul palco mi sono reso conto di avere davanti 200 nerd assetati di particolari su quel lavoro che rappresentava il loro sogno professionale. C’erano un’attesa, un silenzio e un’attenzione che raramente avevo incontrato. Tutto fila liscio tra grafici e aneddoti che non hanno nulla da invidiare ai film su Wall Street, ma il finale è senza happy ending. L’idillio tra me e quei ragazzi si interrompe quando concludo dicendo che se c’è una cosa che ho imparato guardando i miei colleghi trader è che non esiste formula matematica capace di neutralizzare la drammaticità di stare davanti alla realtà che non va come ti aspetti, che sia il prezzo del petrolio o la donna che ti rimbalza, per quello ci vogliono dei legami forti. Suggerivo quindi di passare meno tempo al pc e di scegliersi invece bene gli amici, perché quello che permette di rischiare e di stare di fronte alle conseguenze dei rischi, ai fallimenti, sono rapporti vivi e scomodi, argini al pensiero dominante che ti fa consistere solo in quel fai.

Non mi hanno più invitato.

Peccato, perché è proprio così: non si osa, non ci si impegna sul lavoro, come nella vita, se si è da soli, se non si è costantemente richiamati da rapporti che ci mostrano le cose per cui vale la pena rischiare e su cui fondare la propria certezza. L’amicizia è questa roba qua, qualcosa che non ti lascia tranquillo, che rende improrogabili certe domande, che ti prende sul serio più di quanto ti prenda sul serio tu stesso. Entra come una lama dentro le questioni, dentro al tuo destino, senza avere il problema di compiacerti, ma poi riprendendoti sempre. Così si capisce perché l’orizzonte del lavoro dovrebbe essere l’amicizia, perché senza tendere a costruire questo tipo di rapporti in azienda non si rischia più, ognuno è preoccupato solamente di non sbagliare e il senso di utilità, che muove originalmente tutti, va a farsi benedire.

Il dio Salute e i comodi propri

Con il Covid è la stessa cosa. L’ho preso a marzo: in pochi giorni ero a posto, ma mi sono fatto la mia lunga quarantena in isolamento. Ho toccato con mano il rischio di “appaltare” la vita al comodo, a ciò che si controlla, o al nuovo dio “Salute”, di scambiare l’obbedienza alle circostanze con un’arrendevolezza sterile, di prendere le raccomandazioni governative come diktat inconfutabili che fanno dimenticare che «non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici», di vedere il distanziamento sociale diventare affettivo. Poi a cascata tutto si annacqua, il giudizio sulla realtà è il primo a risentirne e si finisce per vedere solo quello che si sente e che si capisce, il resto non c’è.

Invece, «rispondere a qualcosa e qualcuno di quel che si fa», che esista un luogo così, come ci insegnava Enzo Piccinini, rende drammaticamente presente la vita tutta, anche quella che non ti piace, anche quella che non capisci. È come il bambino a tavola che rovescia l’acqua e con la coda dell’occhio cerca i genitori per vedere se lo hanno visto: senza la loro presenza, quell’errore scivolerebbe via fino a non essere più percepito come tale. È il «meritatelo» del capitano Miller nel celebre film Salvate il soldato Ryan, detto in punto di morte al ragazzo per la cui salvezza stava dando la vita.

Ma come si fa a meritare una salvezza? Questa è l’altra grande questione, l’amicizia vibra sempre di questa domanda e l’audacia è alimentata costantemente da questo fuoco. Come rispose il cardinale Carlo Caffarra a una ragazzina che sosteneva che non si faceva «nulla di male» ad andare in discoteca: «Amica mia, tu non sei fatta per non fare niente di male, sei stata creata per fare il bene».

Fare il bene, costruire. L’amicizia ha sempre a che fare con una costruzione, sempre! Senza questo orizzonte ideale ogni affetto si ammoscia e la vita perde gusto (anche tra marito e moglie).

La telefonata delle 8.30

Te Deum laudamus per gli amici più tenaci in questa costruzione, quelli più scomodi, quelli che ti entrano dentro con giudizi decisi, ma soprattutto con l’esempio (e con quello non puoi discutere).

Te Deum laudamus per i miei amici che hanno fatto della domanda sulla disabilità della loro figlia un’occasione di compagnia per centinaia di famiglie, perché da quella domanda improrogabile posta a una fraternità scalcagnata è nata la Mongolfiera Onlus. Per la telefonata delle 8.30 con il mio amico che lotta ogni giorno per far crescere la sua azienda come una cattedrale, cioè come il riflesso della grandezza che ci ha preso. Perché la sua tensione nel condividere così tanto del suo lavoro scardina la mia presunzione di autonomia. Per mia moglie che combatte in neonatologia ogni giorno provando ad affermare la verità della vita contro un mondo che non è capace di vedere al di là di quello che può misurare. Per quegli amici precisi, proprio quelli lì: che ci sono, anche quando non ci sono io.

Te Deum laudamus per questa compagnia invadente, che non mi lascia tranquillo, che mi ferisce e mi segna la strada, unica roccia su cui fondare ogni rischio nella vita. Perché è talmente affascinante l’ideale che vedo, che resta l’unico posto in cui sono disposto a fare un passo indietro rispetto a quello che penso. E in cui la grande obiezione del limite, o del tradimento dell’altro, può diventare (misteriosamente) motivo di conversione per me.

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Marco Bernardi, autore di questo articolo, è presidente di Illumia, primo family business italiano nel mercato retail di energia e gas

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