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Te Deum laudamus per la tenacia dei miei Gedeoncini

La cappa grigio pallida della paura che regna nei nostri college frantumata da un dibattito su Dio. E da uno strappo in stazione

Siobhan Nash-Marshall
14/12/2020 - 17:46
Magazine
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Lezione in università

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Quando si pensa ad un Te Deum, si immaginano i grandi eventi – la miracolosa vittoria di Lepanto o la discesa degli Ussari Alati dal Kahlenberg a Vienna. Si immaginano, insomma, eventi all’altezza della gloria di Dio, gloria vista quando Davide sconfisse Golia, e Gedeone e i suoi Trecento i midianiti. È nelle grandi impossibili vittorie che noi poveri esserucoli riusciamo a vedere l’onnipotenza di Dio: è nel miracolo che ci esce spontaneo un Te Deum dal petto. E confesso di desiderare molto oggi vedere dispiegata la potenza di Dio.

Voglio vedere schiacciati i turchi e gli azeri che hanno torturato i miei fratelli armeni. Voglio vedere una Giovanna d’Arco arrivare su un alto cavallo bianco, alzare il suo stendardo e gridare che gli Ara e le Hripsime, i Vahan e le Mariam hanno sofferto abbastanza, che possono tornare nelle loro case e fare il pane e il vino nelle terre dei loro avi. Voglio vedere schiacciate le schiere di idioti che vorrebbero dichiarare conclusa l’elezione americana per quanto non sia ancora stata certificata.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Sono stanca di vivere sotto la cappa grigio pallida di paura che ci hanno imposto nel lontano marzo, di vedere al potere i fifoni mediocri – gli esperti di risk management – e gli astuti lupi che li sanno manovrare. Sono stanca di vedere più piccioni che persone nella mia città: di vedere vetrina dopo vetrina vuota, e talvolta tappezzata di biglietti con numeri di telefono, come nel caso dei parrucchieri che sono disposti a venire a casa. Sono stanca di sentirmi chiedere da newyorkesi diventati pavidi: «Posso entrare con lei nell’ascensore? Perché sa, non c’è ancora il vaccino?». Sono stanca di sentirmi dire mese dopo mese da colleghi che ritrovo in consigli di facoltà Zoom, che «sì, certo, non si può andare avanti così», «sì, ci si dovrebbe ritrovare», che «sì, gli studenti vengono defraudati», ma ahimè «non possiamo fare lezione di persona, perché abbiamo delle “comorbidities”».

Come scrivere, allora, un Te Deum di fine anno? Per che cosa ringrazierò il mio Creatore a Thanksgiving, un Thanksgiving che i politici vogliono sgozzare con regole e regolette su chi può come e quando ritrovarsi?

Qualche giorno fa un mio allievo mi ha accompagnato alla stazione. Avevamo appena finito di leggere e commentare il secondo capitolo delle Confessioni di sant’Agostino, che i miei ragazzi – che nello scorrere del semestre sono andati aumentando in aula – dovevano spiegarmi alla luce della misteriosa affermazione di san Tommaso nella Contra Gentiles: Via efficacissima ad probandum Deum esse est ex suppositione aeternitatis mundi, qua posita, minus videtur esse manifestum quod Deus sit («La via più efficace per dimostrare l’esistenza di Dio parte dal presupposto che il mondo è eterno, presupposto che rende meno evidente che Dio è»).

Come può essere “in me”?

I miei ragazzi si sono subito buttati sulla domanda di sant’Agostino: Quoniam itaque et ego sum, quid peto, ut venias in me, qui non essem, nisi esses in me? Non enim ego iam inferi, et tamen etiam ibi es («Perché, allora, io ti chiedo di venire in me, se sono, e non sarei, se tu non fossi già in me? Non sono ancora all’inferno, eppure tu sei anche là»).

«Bisogna chiedere che Dio», spiegava Niaya, fiera della sua fresca conoscenza delle Categorie di Aristotele, «venga “in me” perché Dio non può essere “detto di me”. Non sono Dio». «Sì», le ha risposto Juliana, «ma se è condizione necessaria della mia esistenza – “non sarei se non fossi in me” – Dio deve essere “detto di me”». «Ma cosa capisci, girl?», ha replicato Niaya scuotendo la testa. «Non so come spiegartelo. Umano può essere detto di te. Sei umana. Dio non può essere detto di te. Tu non sei Dio, period». Al che ha fatto quel bel gesto fluido che indica: basta, è così. «Ma magari», ha tentato timido Brian dall’altra parte della classe, «questi “detto di” e “esiste in” non bastano. Non ci ha spiegato, Nash, come certe relazioni, tipo quelle di madre e padre, ci fanno essere? Magari ci sono relazioni che possono essere dette di me. E quella con Dio una di queste». «Mmmm», ha risposto Niaya, l’ape regina della classe, «magari anche. Ma Agostino dice: “Non sarei se tu non fossi in me”. Dio deve allora essere in me».

Seduta di fronte ai miei ragazzi, con un computer alla mia sinistra su cui vedevo le faccine degli altri ragazzi che per un motivo o per l’altro seguivano online le lezioni, sono intervenuta io. Ho chiesto a Niaya come può essere “in me” Dio, se tutte quelle cose che sono “in me” – come il mio essere professore – vengono ad essere in me dopo che sono già me stessa. Rinvigorito, il partito “detto di” ha preso nuova vita e si è rimesso in gioco, disegnando cerchi e altre figure geometriche sulla lavagna nel tentativo di mostrare come non essem, nisi esses in me indicasse che Dio è condizione necessaria “di me”.

«Dov’è la grinta di questo paese?»

Una bella oretta e mezza dopo, oretta in cui ho seguito le loro menti alle prese con la cecità umana di fronte alla onnipresenza divina, ho guardato l’orologio e mi sono alzata con un balzo dicendo, «Ehi ragazzi, devo andare! E questa volta mi tocca prendere un taxi. Quanto tempo mi fate perdere!». Brian si è fatto avanti. «Professoressa, vuole un passaggio?». Ed io, con gioia, ho accettato.

Era fiero del suo pick up truck, il mio Brian, alto, bello, e con la faccia pulita di un giovane uomo che non ha perso la gioia dell’avventura. Durante il tragitto verso la stazione, mi ha spiegato che l’America deve riscoprire il suo nerbo. «Dov’è la grinta americana?», mi ha chiesto. E io: «In noi e nei settantaquattro milioni di americani che la vedono come noi». Brian ha sorriso, quel bel sorriso di un uomo che non teme il futuro. «Roger», ha detto: ricevuto. Non avevamo bisogno di dire altro.

Il mio Te Deum di quest’anno, allora, è per Brian e per Niaya, per Juliana e per Jesse, per Edwin e per Caroline, per Graham e per Letizia, per Claudia e per Rebecca, per Avery e per Stephanie, per tutti, tutti i ragazzi che Dio mi ha dato, per la loro gioia e per la loro tenacia: i Gedeoncini che non hanno paura di dire non essem, nisi esses in me.

***

Siobhan Nash-Marshall, autrice di questo articolo, è professoressa di Filosofia al Manhattanville College di Purchase, New York

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