Un successo a furor di popolo. I milioni di sottoscrittori che si sono contesi le azioni della privatizzazione Enel hanno dato vita a un fenomeno di capitalismo di massa che ha superato ogni attesa. Faranno un buon affare? Molto probabilmente sì. I piani strategici dell’ex-ente pubblico sono promettenti e i risparmiatori orfani dei bot dovrebbero ricavarne qualche soddisfazione, anche se le quote assegnate a ciascuno saranno relativamente basse. Con questa operazione la borsa italiana aumenterà la sua capitalizzazione di 100mila miliardi e acquisterà maggior spessore e più peso anche in ambito internazionale. Anche questo un motivo di soddisfazione, seppure più riservato agli addetti ai lavori o agli investitori più sofisticati. Nell’insieme un’azione forte di creazione di consenso a tutti i piani della piramide sociale, dalla portineria al superattico. Un grande successo soprattutto per il governo, al quale saranno gratificati tra i 20 e i 25mila miliardi in moneta sonante: il valore di una maxi-manovra finanziaria versato con il sorriso sulle labbra, con la stessa gratificazione ludica di un gigantesco gratta e vinci. A fronte di questo la mano pubblica non cede quasi nulla di un potere consolidato in 40 anni di storia.
Enel, 40 anni sotto la luce dello Stato Tutto cominciò negli anni ‘60, quando coi soliti cinquant’anni di ritardo sulla storia e auspice il primo centrosinistra, si partorì la nazionalizzazione di un settore fino ad allora diviso in diverse società private, oltre alle aziende municipalizzate o consortili. Qualcuno aveva letto Lenin: “comunismo significa il potere dei soviet e l’elettrificazione delle campagne”. Per la verità in Italia le campagne erano già state elettrificate da un pezzo, ma fa niente. Solo l’elettricità di Stato, era la tesi, poteva garantire l’utenza anche alle masserie isolate e poi i privati non sarebbero mai stati in grado di affrontare gli investimenti per costruire, pensa un po’, le centrali nucleari. Erano gli anni in cui gli slogan di moda inneggiavano “all’uso pacifico dell’energia atomica” ed era questa, in effetti, la battaglia ideologica di quarant’anni fa. Un modo per giustificare l’intervento dello stato in un settore importante dell’industria nazionale, imponendo il monopolio pubblico.
Fu il suggello dell’alleanza tra la Dc e il Psi di Nenni, che apriva la strada della cooptazione del Pci in tutte le scelte strategiche del paese. Quanto al potere ai soviet, ci avrebbe pensato di lì a poco il ‘68 a tentare di chiudere il cerchio, con la cultura dei collettivi spontanei guidati dai marescialli di partito, destinati comunque a divenire uomini di governo e di apparato alla fine degli anni ‘90.
Col monopolio poco mercato, molto partito e sempre sindacato La botta per l’economia italiana fu terribile. Il mercato finanziario si vide sottrarre la sostanza di alcune delle più importanti società quotate, iniziando una fase di isolamento dal resto della finanza mondiale che è durata fino a metà anni ‘80.
A livello di utenza industriale si levavano periodicamente lamenti sul costo dell’elettricità in Italia raffrontato a quello pagato dalle industrie situate in paesi concorrenti. Lamenti ai quali, come a tanti altri (costo del lavoro, carenza di infrastrutture, fiscalità, ecc.), si faceva regolarmente fronte con incentivi e sovvenzioni particolarmente solleciti nei confronti degli imprenditori più docili o, se preferiamo l’ipocrisia dei termini gramsciani, più “organici” nei confronti della cupola partitico-sindacale. In questo l’Enel ha svolto tutto il suo ruolo per rafforzare il “primato della politica”: tenere continuamente sotto schiaffo l’economia produttiva, creando, con l’arma delle tariffe, bisogni il cui soddisfacimento finale (l’equilibrio economico delle imprese clienti) dipendeva dalla capacità di ricorrere alla mediazione politica. I vantaggi tariffari per le grandi aziende, a scapito delle piccole e medie imprese, è un segnale che si presta a tante interpretazioni.
È stata la ricetta della “terza via” all’italiana: perché statalizzare brutalmente tutta l’economia, ammazzando le galline dalle uova d’oro, quando con il controllo di alcune leve chiave si può convincerle a collaborare per rafforzare il consenso e a deporre da brave il quotidiano obolo nel paniere? Una strizzatina ogni tanto, e tutte giù a intonare il più serafico dei coccodé. Un sistema di prezzi amministrati in regime di monopolio serve egregiamente da ingranaggio della grande macchina.
Privatizzare, ma tra il dire e il fare…
Ora l’Europa ci dice che non si può più e che bisogna almeno salvare le apparenze. L’elettricità di stato sopravvive forse in qualche repubblica caucasica e in qualche isola caraibica e a privatizzare l’elettricità, tra i grandi paesi, arriviamo da buoni ultimi. Lo schema della privatizzazione dell’energia elettrica è piuttosto complesso e l’offerta pubblica di azioni Enel non è che un primo passo di un programma che comporta una serie di attività successive. Tra queste la suddivisione degli impianti di produzione di energia in più società tra loro concorrenti (i “generatori”), che l’Enel dovrà mettere in vendita in futuro. La “griglia” di linee che trasportano l’elettricità dovrà essere messa a disposizione di un unico “Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale” o Grtn, che dovrà garantire l’efficienza del trasporto dalle centrali alla distribuzione, secondo criteri e responsabilità che devono essere ancora decisi. La concorrenza sarà determinata dall’incontro dell’offerta dei diversi “generatori” e della domanda degli utilizzatori, che potranno essere dei distributori a livello locale (non più di uno per città, che potranno essere costituiti dalle aziende locali, se queste hanno già almeno il 20% dei clienti del loro territorio, oppure dalla “nuova” Enel) o grandi clienti singoli o consorziati.
Nasce lo Stato Italiano S.p.A.
Nella fase che prelude la sua trasformazione è però avvenuto qualcosa che nessun legislatore, né italiano né europeo, poteva prevedere. La privatizzazione rendeva necessaria la trasformazione preliminare dell’ente in una S.p.A., cioé in una figura giuridica con scopo di lucro. Nel momento in cui questo è avvenuto l’azionista unico, cioé lo Stato, si è messo a fare, tramite l’Enel S.p.A., l’imprenditore in settori diversi dall’elettricità, mettendosi in concorrenza con aziende private. Piccolo particolare: tutto questo è avvenuto in settori dove la possibilità di operare, e quindi di conquistare quote di mercato, dipende da concessioni dello Stato stesso. Che lo Stato graziosamente si autoconcede. Ed ecco un Enel arrembante nei servizi telefonici, nella pay-TV, negli acquedotti e nella distribuzione del gas. Diversificazione di interessi legittima per una società privata in cerca del proprio utile e che compete da pari a pari con altri. Piuttosto originale invece da parte di chi ancora sta agendo con la rendita di posizione di un monopolio pubblico e, mentre sta adattandosi con una privatizzazione tardiva alle direttive europee sulla sussidarietà, sembra approfittare di una zona grigia e di uno stato di privilegio per spiazzare gli altri operatori. Soltanto il fumus del sospetto di un clamoroso conflitto d’interessi, in una fase così delicata, avrebbe dovuto far desistere da certe iniziative. Questo in un paese normale.
Ma dov’è finita la sussidiarietà? Era ed è necessaria una convergenza d’interessi molto forte. Quale può essere? Proviamo a immaginare l’Enel del futuro: una società quotata in borsa e, completati i programmi, con un azionariato molto frammentato e una capitalizzazione elevata. Ma destinata, dopo qualche anno di aumento del valore, a una crescita sicura e regolare ma non certo strepitosa. Un’azienda comunque ricca di liquidità, col privilegio di una banca dati eccezionale sul tenore di vita e le abitudini dei consumatori e con un cavo di rame che entra in case, uffici, negozi ecc. Come proteggerla dal rischio di un’Opa modello Telecom, cioé dall’esautorazione effettiva dell’azionista attuale e dei suoi amici? L’ingresso agevolato in settori ad alto potenziale può contribuire allo sviluppo più rapido della capitalizzazione di borsa, in modo da rendere la vita più dura a chi avesse velleità di conquista. I prezzi delle azioni di chi opera in telecomunicazioni, media, distribuzione integrata di servizi sono sicuramente destinati a un rialzo più forte delle azioni di chi vende soltanto la solidissima ma un po’ noiosa elettricità. Scelte imprenditoriali giuste, dunque, ma da lasciar fare ad imprenditori fuori dall’orbita statale. Sembra difficile negare che con la privatizzazione Enel l’influenza della mano pubblica sull’economia sia destinata ad aumentare anziché a diminuire.
Un nuovo miracolo del primato della politica, Italian way.
E la sussidiarietà? Barbarie da rozzi transalpini.