“Che cosa mai potranno dirci di nuovo e di univoco questi sei leaders progressisti del pianeta riuniti a Firenze per la ricerca della cosiddetta ‘terza via’ della sinistra, dopo il sostanziale fallimento dei due modelli tradizionali del progressismo: non solo quello comunista ma anche quello socialdemocratico?”. Così ragionava Andrea Bonanni in un editoriale di prima pagina del Corriere della Sera pubblicato ieri. E concludeva: “Per ora, essi sono riusciti a darci solo un vero e proprio festival dell’ossimoro (cioè della contraddizione sottaciuta): stato e mercato, competizione e solidarietà, uguaglianza e meritocrazia. Ma il tentativo disperato di conciliare gli opposti potrà uscire dalla sfera delle dispute accademiche per trasferirsi in quello delle politiche concrete?”. Condivido lo scetticismo di Bonanni, perché la stessa disputa accademica ha peccato fin dall’inizio di troppo pressapochismo.
Del resto, già nella primavera del ’98, quando Clinton, Blair e Prodi s’incontrarono a New York per esplorare la possibilità di dar vita a un “Ulivo mondiale”, segnalai il presappochismo di quel tentativo, che metteva sullo stesso piano, anzi sembrava privilegiare, il Prodi-pensiero e il suo pasticcio postcomunista in salsa vaticana, rispetto alle politiche di Clinton e Blair, magari prive di ambizioni teoriche planetarie, ma concrete e vittoriose sul piano delle realizzazioni.
In questi giorni, a Firenze, la situazione non è certo migliorata di molto, dato che la vecchia commedia degli equivoci è continuata, con la regia presuntuosa e noiosa dello stesso Romano Prodi, cui è stata affidata la prolusione dello storico incontro. Com’è noto, Prodi ha rispolverato la vecchia e comoda contrapposizione tra un’America dinamica ma priva di una coscienza e di uno stato sociale e un’Europa ricca di senso sociale ma povera di dinamismo economico. “C’è una sfida americana – ha detto Prodi – che consiste nel creare occupazione e ricchezza. E c’è una sfida europea con cui il Vecchio Continente chiede all’America di saper creare gli stessi livelli europei di giustizia sociale e di equa distribuzione delle opportunità e del reddito”. Tutte balle. Dov’è mai lo stato sociale, in questa vecchia Europa dove la disoccupazione imperversa a livelli stratosferici e dove il nostro tanto decantato sistema pensionistico assicura ai dirigenti statali come Ciampi, Amato e Dini pensioni di un miliardo l’anno, a milioni di dipendenti pubblici pensioni confortevoli dopo 15 o 20 anni di lavoro (o di ozio), alla massa dei pensionati pochi milioni l’anno e a una cospicua quota di esclusi un totale abbandono? Negli altri paesi del Vecchio Continente le cose vanno sicuramente un po’ meglio, ma non di molto, né sul piano dell’occupazione né su quello assistenziale. Ed è logico che sia così perché, come ho sottolineato ripetutamente nei miei scritti, il nocciolo duro della questione non sta tra liberismo americano e stato sociale europeo, ma tra un certo maggior liberismo americano e un modello europeo di stato burocratico, invadente, parassitario, costosissimo e, appunto per questo, ben poco sociale, nonostante le chiacchere dei suoi principali beneficiari, cioè dei boiardi alla Prodi, alla Ciampi o alla Dini.
È un modello che affonda le sue radici in quella che già a metà del ’700 Vincent de Gournay definiva la “buromania” dei governi francesi del suo tempo e che trovò una solenne teorizzazione e consacrazione filosofica nell’opera di Hegel. Nella sua qualità di strapagato aedo dello stato prussiano, Hegel indicò infatti nel burocrate il “tutore del Bene Universale” e nella burocrazia la “Classe Universale” destinata a diventare lo strumento dell’ascesa umana verso lo Spirito Assoluto: e scusate se è poco. Furono idee che, comprensibilmente, piacquero moltissimo non solo ai burocrati dello stato prussiano, ma a tutti i passacarte e a tutti gli sfaticati d’Europa, gonfiando lo stato a dismisura.
Purtroppo, però, questo modello franco-tedesco d’uno stato pletorico e onnipresente ha pesantemente condizionato, e continua a condizionare, lo sviluppo economico non solo dell’Italia ma di tutti i paesi europei (e sono la maggioranza) che insistono a conservarlo, per conservare i vantaggi connessi alla collusione sistematica tra classe politica e classe burocratica. Uniche eccezioni sembrano essere finora i pochi paesi europei ove il cosiddetto stato sociale è stato snellito drasticamente (Gran Bretagna, Irlanda, Spagna) e ove, non a caso, è stata massimizzata l’espansione economica e minimizzata la disoccupazione.
Certo, a Blair e Clinton manca l’elaborazione teorica del liberismo progressista che ho proposto nel mio “Manifesto dei liberisti” già cinque anni fa, ma la sospirata Terza Via è già realizzata nelle loro politiche economiche e sociali che i nostalgici dello stato prussiano… pardon, sociale, non possono adottare senza sconvolgere le proprie maggioranze clientelari.