A Stalingrado senza via d’uscita
In uno dei passi più drammatici del romanzo un ufficiale tedesco, Liss, apostrofa il suo prigioniero bolscevico, Mostovkoj: «I nemici del partito, i nemici del popolo? È una specie che lei conosce, li avete anche voi nei vostri lager. Nel tranquillo tempo di pace i vostri internati sarebbero i nostri internati». E quello non può che riconoscerne le ragioni: «Per riuscire a respingere Liss bisognava rinunciare a tutto ciò di cui aveva vissuto per tutta la vita: con tutta la forza dell’animo, con tutta la passione rivoluzionaria odiare il lager, la Lubjanka, il sanguinario Ezov, Pagoda, Berja! Non basta, bisognava odiare Stalin e la sua dittatura». Nella pagine di Vita e destino la battaglia di Stalingrado è una tragedia senza via d’uscita: bisogna sconfiggere i tedeschi, perché incarnano il male assoluto, la distruzione dell’umano; ma sull’altra sponda ci sono lo stesso odio e la stessa devastazione. Lo sperimenta sulla propria pelle uno dei protagonisti, Krymov, fino al giorno prima zelante funzionario del Partito, dall’oggi al domani gettato da una delazione in quella discesa agli inferi che, fra sospetti, interrogatori, ritrattazioni, ha un solo esito: il lager. Eppure per vent’anni Grossman era stato uno scrittore gradito al governo. La prima parte dell’opera su Stalingrado (Per una giusta causa) apparteneva alla letteratura ufficiale del regime. Ma l’ondata di antisemitismo scatenatasi nel 1953 gli aprì gli occhi sulla vera natura del potere sovietico; e in Vita e destino lo raccontò così com’era. Dopodiché, con un coraggio che rasenta la follia, lo consegnò tranquillamente al solito editore. L’indomani due funzionari del Kgb gli sequestravano manoscritti, dattiloscritti e perfino i nastri della macchina da scrivere e i fogli di carta carbone. Come una copia sia sopravvissuta e giunta in Occidente è ancora oggi un mistero.
La lettura ideale per accompagnare (criticamente) la visione di Il nemico è alle porte, film di Jean Jacques Annaud nelle sale in questi giorni.
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