Confessa Bruce Springsteen al suo intervistatore nel lunghissimo colloquio sul New Yorker, che tanto ha riempito le pagine dei nostri quotidiani colpiti soprattutto dal lancio di agenzia in cui si rivelava che il Boss era affetto negli anni ’80 da depressione suicida: «T-Bone Burnett (musicista e produttore – ricercatore di musica popular americana), afferma che il rock sta tutto nel grido Daaaaaaddy! (papà). È un urlo imbarazzante. È il voler dimostrare ai propri padri che i loro figli valgono, che sono degni di attenzione». Forse Bruce è il primo ad ammetterlo, ora che ha varcato la soglia dei sessant’anni, ora che anche lui è maturo padre: il rock è questo grido, contradditorio quanto si vuole, cosciente di un tempo che è fuggito, dominato da incomprensioni e solitudini.
Perché il rock nasce da una frattura, da una rivalsa tra generazioni che non si sono mai capite, se non forse di fronte alla malattia e alla morte. Il rock è musica di un’assenza, dell’assenza del padre, e, contemporaneamente, il desiderio di essere accolti da un padre: un percorso, però non lineare, pieno di egoismo e di violenza, spesso autodistruttiva; è l’esperienza di un Icaro che brucia le ali di cera, volendo avvicinarsi al sole, senza umiltà, ponendo davanti il proprio io totalizzante, incapace di relazioni, se non attraverso la musica. Dice John Waters, giornalista irlandese, tra i curatori della mostra del rock al Meeting di Rimini 2012: «Dylan, Springsteen, U2, tutti questi artisti hanno trattato temi cristiani. Eppure, nelle loro composizioni, questo elemento rimane per lo più implicito, a causa delle molte contraddizioni che definiscono il mezzo».
Non si spiega il rock, non si capisce il rock solamente dai suoni e dalle parole: si capisce se ci si immerge nelle storie dei suoi interpreti, la loro sfida alla generazione precedente, quella dei loro padri che li odiavano perché non capivano la loro contestazione. Dice Little Stevens, il chitarrista fratello di palco del Boss: «I nostri padri facevano paura, si accorgevano che i loro figli non accettavano il mondo per il quale avevano lottato e fatto la guerra. Avevano paura di ciò che stavamo diventando e divennero ancora più autoritari. Ci vedevano drogarci, ci vedevano suonare quel pazzo rock’n roll e si domandavano dove avessero sbagliato». Ma Doug Springsteen (il padre di Bruce, morto nel 1998, dopo lunga malattia) vive, e oggi rivive nelle canzoni del figlio: in “Indipendence day” (l’abbandono della casa paterna), in quel padre feroce che «cammina per queste stanze vuote, in cerca di qualcosa da biasimare, ereditandosi i peccati», in “Adam raised a Cain”. E poi le canzoni della fuga di “Born to run”, quelle della lotta post industriale di “Darkness on the edge of town”. Confessa il Boss: «La lotta dei miei genitori è il soggetto della mia vita». Doug, a chi gli domandava quali erano le canzoni che preferiva del figlio, rispondeva: «Quelle che parlano di me». Con le canzoni Bruce ripara se stesso e un po’ ripara il rapporto complicato con il padre.
La droga non è il percorso del Boss, allevato dal suo scopritore, mentore e produttore Jon Landau con la lettura di Steinbeck e Flannery O’Connor: il suo doloroso percorso è la depressione che eredita da suo padre, che sembra attanagliare anche la moglie del rocker, Patty, la madre dei suoi tre figli: è una lotta che si apre all’amicizia, che si interroga quando i compagni di tante tournee lasciano questa vita. E il ricordo aiuta ad andare avanti, magari scoprendo nei parenti più giovani, gli eredi artistici che possono sostituirli nella grande avventura musicale. È quello che è capitato a Jake Clemons, nipote dell’immenso “Big man” Clarence, il sax del Boss, che a proposito dell’opera terapeutica del rock’n roll ha dichiarato: «Lo show di Springsteen è un sacco di cose, ed è in parte un‘esperienza religiosa. La religione è un insieme di regole e di ordini, e unisce le persone in uno scopo: c’è davvero una componente soprannaturale in Bruce. Bruce è Mosè, forse viene dalla stirpe di Davide!».
Il rock ti salva dalla depressione se lo riscopri legato ad una tradizione, alla tradizione dei gospel, del blues. Dice ancora John Waters: «Il blues rimane la migliore espressione del rock’n roll, quando la musica inizia come un grido dal cuore umano». E Springsteen è oggi la miglior testimonianza di questo sentire del cuore: come in The Rising con il dramma di una sconcertata America raggiunta dal terrorismo, in quell’11 settembre. È il gospel finale che invita ad alzarsi, a risorgere. Come il suo nuovo lavoro, “Wrecking ball”, che canta la tragedia economica americana, il dramma della disoccupazione che mai gli statunitensi del dopo guerra hanno così abbondantemente sperimentato, finisce le sue tracce sul cd con il coro “We’re alive!”, sopravvivremo, e il canto si alza tra parole di protesta e di speranza. Springsteen ha trovato i suoi padri: all’inizio è stato Dylan. Lo ha raccontato, Bruce, recentemente: «Quando arrivò Bob, ci diede finalmente le parole che mancavano. Sapevamo che c’era qualcosa da esprimere, ma non esisteva ancora un linguaggio, perché un giovane potesse dare verbo a quello che sentiva. Bob ci diede le parole e ci trattò da adulti: ci ha dato le parole per capire il nostro cuore». E poi Woody Guthrie e poi Pete Seeger, del quale ha ricantato tutto il repertorio, quei canti di lavoro e di quella domanda aperta: «Perché per tutta la vita ho cercato di rispondere ad una domanda; perché c’è sempre un buco nel mio secchio?». Il rock non chiude quel buco, semplicemente, lo celebra, lo canta; alla ricerca perenne di una presenza che colmi l’assenza del padre, che giustifichi quel grido: “Daaaaaaddy”.