Siamo all’agguato, non sapremmo come altro definire il comportamento messo in atto da una giornalista di Mediaset che ha chiesto un’intervista a Jacopo Coghe, vicepresidente del Congresso mondiale delle famiglie, e poi si è presentata all’appuntamento con Alessandro Cecchi Paone e Vladimir Luxuria. Il video che vedete qui sopra è stato girato con un cellulare e rende bene l’idea di come si siano svolti i fatti.
Non staremo qui a farvi la morale sulla deontologia professionale né a richiedere un intervento dell’Ordine dei giornalisti, sono tutte cose (giuste) ma sappiamo bene che nessun ordine muoverà un dito per fare qualcosa. Sono troppo impegnati a fare corsi e convegni sulle fake news per avere il tempo di occuparsene.
Se fosse successo a Saviano
È la solita storia, e anche noi ne sappiamo qualcosa. Ci preme far notare a tutti l’odio ideologico e preventivo messo in campo dai grandi media contro gli organizzatori di un congresso che non si è ancora svolto. Non hanno ancora detto niente, eppure tutti se la prendono con quel che diranno. Sono mesi che si va avanti e si è oggettivamente passato il segno. Li hanno definiti omofobi, razzisti, misogini, medioevali, sessisti. È stata organizzata una campagna di boicottaggio contro gli albergatori che ospiteranno i partecipanti. Un mese fa, a Firenze, le “transfrocie antifasciste” hanno accolto il portavoce del Family Day con uno striscione su cui stava scritto: «Appendiamo Gandolfini». Fosse accaduto con Saviano o Luxuria, sarebbero partite raccolte di firme e articolesse di Scalfari a go-go.
Sfigati, merde, medioevali
Luigi Di Maio li ha definiti «sfigati», Monica Cirinnà delle merde, Lilli Gruber dedica trasmissioni tv antipatiche al loro convegno, Enrico Mentana ne ha quasi un’ossessione. Tutti i grandi giornali hanno scelto una linea comune per descriverli e da lì non si sfugge, qualunque chiarimento gli organizzatori mettano in campo, qualsiasi tentativo facciano, anche in positivo, per spiegare le proprie ragioni. Quelli di Verona sono “tradizionalisti e liberticidi”, dicono i difensori progressisti della libertà di parola (la loro).
Perché non possono parlare?
I relatori del convegno di Verona possono non piacere. Possono non garbare i toni, le modalità, persino i temi trattati. Possono dar fastidio le mamme coi passeggini, i papà coi figli a tracolla, esperti e studiosi che hanno alle spalle studi ventennali su politiche familiari, relazioni interpersonali, sistemi economici che aiutino il nucleo fondante di ogni società. Può pure fare schifo la nostra Costituzione, l’articolo 29, il fattore famiglia. Può essere tutto, per l’amor del cielo. Possono pure stare sulle palle Salvini, Fontana, Sboarina, Meloni e chi volete voi. Può pure essere che certe cose potevano essere fatte meglio, che certe idee potevano essere comunicate meglio, ma non si capisce perché quelli di Verona non possano parlare, dire la loro, comunicare.
C’è libertà di parola?
Dove sono i laici difensori della libertà di parola? Gli araldi del libero pensiero? I pasdaran del “non sono d’accordo con te ma sarei disposto a morire eccetera eccetera”? Oggi su Avvenire c’è un bell’articolo di Davide Rondoni (“Attenti, non è bene che la famiglia sia sola”) che, a nostro parere, coglie un aspetto fondamentale del dibattito intorno alla questione (in breve: la famiglia senza comunità rischia di diventare monade, un «controsenso asfittico», scrive Rondoni). È un punto di vista intelligente, costruttivo, per certi versi molto più provocatorio e contundente di tutte le sceneggiate messe in campo dai vari Luxuria e Cecchi Paone, gente che s’accontenta di rimestare nel marginale dei propri pregiudizi, delle proprie frasi fatte, dei propri slogan. Li chiamano “democratici”. Organizzano agguati.