I giornali hanno scritto entusiasti della recente scoperta di una possibile cura per la trisomia 21 (silenziare il cromosoma di troppo che origina la sindrome di Down) fatta da alcuni ricercatori dell’università del Massachusetts negli Stati Uniti. Una strada aperta tempo fa dallo stesso scopritore della malattia, Jérôme Lejeune. Ma secondo Bruno Dallapiccola, fra i più grandi genetisti a livello internazionale, e direttore scientifico dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, bisogna essere più cauti: «Non conosciamo ancora molte cose, non sappiamo come il cromosoma 21 in più si esprima sui tessuti nel tempo della crescita della persona malata – dichiara a tempi.it – Manca quindi la quadratura del cerchio e non bisogna illudere nessuno. Questo studio è importante e dice che la ricerca si sta muovendo e può arrivare a buon fine. Ma solo se si rispettano i suoi tempi, con pazienza».
Quali sono i suoi dubbi?
Credo che vada ben distinto il risultato scientifico da quello trasferibile nella pratica clinica. Dal punto di vista pratico uno dei problemi che si sono trovati ad affrontare i ricercatori è rappresentato dal fatto che in questo caso non stiamo lavorando su malattie con un solo gene implicato. Come fai a gestire una situazione così complicata? La prima idea di Jérôme Lejeune fu di eliminare il cromosoma in più. Solo che è difficile pensare di spostare un cromosoma o un pezzo di Dna di grosse dimensioni fuori dai miliardi di cellule dell’organismo, quindi l’altra idea di Lejeune fu di cercare il modo di disattivarlo.
Quello che i ricercatori sostengono di poter fare?
Non esattamente. I ricercatori hanno usato un meccanismo già presente in natura. Le femmine hanno 46 cromosomi, ma nelle cellule somatiche dell’organismo ne funzionano solo 45, perché uno dei due cromosomi X (le donne ne hanno due e gli uomini uno) è quasi inattivo. Il principio ingegnoso di questo sistema, ideato dalla natura, fa si che le donne e gli uomini possano esprimere una quantità analoga di geni X. Questo processo parte da un gene detto Xst che sta sopra il cromosoma X, il quale produce l’Rna, l’acido ribonucleico, che si va ad appiccicare come una colla sul cromosoma X in eccesso, mettendolo fuori uso. Questo fa si che nelle cellule delle femmine funzioni il 50 per cento dell’X paterna, nella restante metà quella materna non silenziata. Ecco gli scienziati del Massachusetts hanno provato a usare questo sistema.
Come?
Prima hanno preso le cellule della pelle di un maschio Down e le hanno riprogrammate, avvalendosi della scoperta del premio Nobel Shinya Yamanaka, per cui oggi è possibile prendere una staminale adulta e riprogrammarla attraverso l’attivazione di 3/4 geni dandole le caratteristiche di una cellula embrionale. Così hanno ricreato in vitro un modello di cellula con trisomia 21. In questa hanno poi inserito il gene Xst che serve a mettere fuori uso il cromosoma 21 in più, riuscendo a disattivarlo al 95 per cento. E questo è un grande risultato, un modello estendibile ad altre patologie. Ma c’è un “ma”.
Quale?
La diagnosi della sindrome di Down non può avvenire prima del secondo trimestre di gravidanza. Quindi il cromosoma in più ha già alterato alcuni tessuti. Parlo, ad esempio, della strutturazione della corteccia celebrale, che viene danneggiata dal cromosoma in eccesso. Quindi, anche se poi sarà messo sotto silenzio, i danni già prodotti saranno irreversibili. Quindi non illudiamoci che si correggano tutti gli errori.
Correggerne alcuni non sarebbe già un grande risultato?
Bisogna capire se questo sistema è in grado di farlo. Non sappiamo se usando il processo descritto in un embrione già sviluppato da qualche settimana si riusciranno a correggere gli altri tessuti. Questa è l’altra obiezione che ho, e viene dallo studio fatto con il professor Stylianos Antonarakis di Ginevra, uno dei più brillanti ricercatori della trisomia 21. Allora Antonarakis, con il suo gruppo, aveva fatto uno studio su moltissimi pazienti Down, prendendo sia le cellule della pelle sia quelle del sangue. Su queste sono stati analizzati oltre 100 geni presenti sul cromosoma 21. Questi geni, dato il cromosoma in eccesso, generano un’attività del 50 per cento maggiore in chi ha la sindrome di Down. Ma quello che si è scoperto è che fra i geni studiati, solo l’8 per cento aveva effetto sulle cellule sanguigne, mentre su quelli della pelle influiva il 38 per cento. Dal punto di vista pratico questo ci insegnò una cosa ormai risaputa: quando parliamo di genoma non possiamo fare solo i conti con i nostri geni e la nostra sequenza del Dna, bisogna scoprire come funzionano, come cambiano la loro funzione sui diversi tessuti e nel tempo (quello che capita nel neonato è diverso dal bambino o dal giovane adulto). In poche parole abbiamo un modello in vitro, ma bisogna ancora fare i conti con quello che avviene di fatto durante lo sviluppo dell’essere umano.
È ancora troppo presto per cantare vittoria?
Non ci dobbiamo aspettare che, né domani mattina né tra cinque anni, con questo sistema si curi certamente la sindrome di Down. Quello che ritengo realistico è invece che questo modello potrà avere influsso su alcuni tessuti non ancora danneggiati e quindi su certe disfunzioni causate dalla sindrome di Down. Ad esempio sul cromosoma 21 c’è un gene che si chiama App (Proteina precursore della beta-amiloide), che genera l’Alzheimer. I soggetti Down vanno incontro a questa patologia, spesso dopo i 35 anni. E questo capita perché producono l’App nel cervello una volta in più rispetto alla norma. Allora è chiaro che, ad esempio, un disattivazione specifico di questa proteina potrebbe aiutare a prevenire la malattia che si sviluppa nel tempo. Bisogna però capire ancora come si fa a far arrivare l’Rna, che silenzia il cromosoma, a livello del cervello.
Molti suoi colleghi hanno accolto la scoperta in modo più entusiasta.
Io sono il più entusiasta di tutti di un risultato scientifico bello come questo. Ripeto, è un modello che darà molti insegnamenti. Ma non condivido come, tra gli altri, anche alcuni colleghi e amici di Scienza e Vita lo hanno accolto. Bisogna differenziare le prospettive dai risultati di laboratorio. Ci avevano detto che nel 2010 avremmo avuto una medicina differenziata, siamo nel 2013 e non c’è ancora. Perché? A fronte di una scoperta puoi fare delle ipotesi di lavoro, in questo caso sui probabili benefici per alcune patologie, ma non possiamo illudere malati e famiglie dicendo che questa scoperta curerà la sindrome di Down. Aspettiamo di vedere: tutti coloro che hanno forzato i tempi della scienza hanno venduto prodotti inefficaci o illusioni. Bisogna invece dare speranza raccontando che la ricerca procede. Il che è ben diverso da illudere le persone.