Come è possibile che il regime comunista sovietico, il più longevo, il più sanguinario e repressivo, il più ideologicamente compiuto tra i sistemi totalitari che hanno sconvolto l’Europa nel XX secolo, abbia subìto, prima del suo collasso definitivo, una trasformazione tanto rapida quanto paradossalmente pacifica? L’ipotesi che Marta Dell’Asta, ricercatrice di storia sovietica presso la Fondazione Russia Cristiana, avanza in risposta a questo interrogativo sulla storia recente nel suo Una via per incominciare (ed. La casa di Matriona) ci riconduce alla storia di un movimento d’opposizione unico nel suo genere: il dissenso sovietico, un fenomeno di cui pochi ancora conservano memoria, cui molto però ancora oggi deve una buona parte del mondo.
Il dissenso significò per la nazione sovietica, per settant’anni violentata fino all’annullamento fisico e psicologico dalle purghe, dalle deportazioni e dalla propaganda bolscevica, molto più di un semplice evento politico fragoroso. Il dissenso non tentò mai di rovesciare il regime in forza di un’ideologia alternativa e più perfetta, né si propose appena di rappresentare l’antagonista politico del Partito dei Soviet. Esso fu innanzitutto l’affermazione di una vita che tornava a rivendicare le sue ragioni. All’idea astratta del “bene della causa”, con cui l’ideologia comunista era arrivata a costituire la categoria del “nemico del popolo” e ad istituire il reato d’opinione, isolando (quando non eliminando) chiunque si ostinasse a mantenere vivo un proprio spazio di libertà, il dissenso non contrappose mai un principio massificante cui la persona potesse essere sacrificata. Il dissenso scardinò l’ideologia perché restituì all’uomo se stesso e la sua inesauribile sete di verità. «Tutta la nostra problematica», scrive Andrej Sinjavskij ne Gli scopi e il significato della dissidenza, «non si riduce a distruggere qualcosa: noi non siamo un partito politico che si propone di andare al potere, di fare la rivoluzione. Nel significato più ampio della parola la dissidenza non è semplicemente un’opposizione nata in rapporto al potere. La gente ha cominciato a scrivere, a pensare, a compiere il bene, tutto questo ha un valore in sé, indipendentemente dal risultato».
Le anime del movimento cominciarono a risvegliarsi dal torpore omologante dell’ideologia fin dai primi anni del regime prendendo innanzitutto coscienza della propria corresponsabilità nel sistema di ingiustizia instaurato nel paese. Vitalij Sentalinskij ricorda: «L’ideologia comunista non era per noi qualcosa di esterno, di imposto con la forza; al contrario si era annidata nel profondo della nostra coscienza e l’alimentava […]. Soltanto qualche solitario si ribellava e pagava cara la sua ribellione. L’arena della lotta, il campo di battaglia erano soprattutto la coscienza, l’anima di ognuno». Proprio nel cuore del singolo, che drammaticamente si scopriva impiastricciato e implicato (attivamente o passivamente) negli orrori del comunismo, doveva erompere il grido dell’uomo che torna a sentire la propria responsabilità di fronte al reale, il gusto della vita, la tradizione. «Io disprezzavo l’uomo sovietico», ammette Vladimir Bukovskij ne Il vento va, e poi ritorna, «Non quello raffigurato sui manifesti o nella letteratura, ma quello vero, reale, privo di onore, di orgoglio, di senso di responsabilità… che tradirebbe e venderebbe suo padre pur di non essere colpito dal pugno del suo superiore. La tragedia è che egli risiede in ognuno di noi, e finché non ci riuscirà di vincere dentro di noi quest’uomo sovietico, nulla muterà nella nostra vita».
Chi ci iscrive al genere umano?
A partire dal settembre del 1960, quando il primo gruppo di giovani dissidenti osò sfidare a colpi di versi il potere di Mosca in piazza Majakovskij (cfr. Tempi n. 24), uomini di fede e uomini atei si ritrovarono improvvisamente uniti nel riconoscere alla propria dimensione spirituale, al proprio senso religioso il primato assoluto, di fronte al quale tutti gli altri valori (perfino i dettami dell’ideologia) dovevano giustificarsi. L’agnostico Andrej Sacharov, tra gli scienziati che condussero i primi esperimenti nucleari sovietici negli anni Cinquanta, in seguito autorità morale indiscussa del dissenso, sintetizza sapientemente questo caposaldo della battaglia culturale nelle sue Memorie: «Non credo nei dogmi, non mi piacciono le Chiese ufficiali… Al tempo stesso non posso immaginarmi, non riesco a immaginarmi l’universo e la vita umana senza un principio che dia loro un significato, senza una fonte di “calore” spirituale esistente al di là della materia e delle sue leggi. Forse un tal modo di sentire può definirsi religioso». Il giovane poeta Iosif Brodskij, arrestato nel 1964 con l’accusa di parassitismo, durante il suo processo (il primo tra i processi ai dissidenti ad essere stenografato per intero e messo in circolazione attraverso il samizdat), all’obiezione del giudice «Chi l’ha iscritta tra i poeti?», rispose: «Nessuno. E chi mi ha iscritto al genere umano?». Restituendo al mondo la realtà dei fatti, il dissenso rendeva palese l’assurdo che il sistema sovietico aveva realizzato per giungere al pieno controllo della popolazione.
Ripartire dall’uomo concreto
Questo pugno di uomini senza speranza alcuna di vittoria, «formiche di fronte al muro del sistema», ha introdotto un modo anomalo di fare politica che ancora oggi ai nostri occhi risulta rivoluzionario: l’importanza primaria era attribuita alla persona e alla sua libertà, in nessun caso essa poteva essere immolata per la causa dell’organizzazione. È Vaclav Havel, dissidente laico dell’Est europeo, ad esplicitarlo: «Mi sembra che la “semplice” difesa dell’uomo oggi sia in un certo senso (e non solo nella nostra situazione) un programma massimale e il più positivo; riporta la politica al punto da cui soltanto può partire se deve eliminare tutti gli antichi errori: all’uomo concreto». Perciò l’impegno era una scelta sempre strettamente personale: le riviste culturali del samizdat venivano prodotte e diffuse a rischio della propria vita (spesso anche sacrificandola). Come afferma Tat’jana Chodorovic in una delle centinaia di lettere che i dissidenti scrivevano da carceri, Gulag e manicomi speciali, è l’umanità l’unico valore cui valga la pena dedicare la propria vita: «Io vedo la mia vocazione umana, il senso della mia vita nella condanna del male, nella misericordia, nella condivisione, nella compassione, nell’aiutare coloro che ne hanno bisogno… Non difendo i diritti di milioni di persone ma di poche decine, forse qualche centinaio. Non ho mai affermato di parlare a nome delle masse e neppure della “maggioranza silenziosa”, che non so cosa sia. Questa mentalità sembrerà assurda a chi identifica la statistica con la morale. Le mie parole e la mia speranza sono rivolte non a chi identifica la verità con l’aritmetica, ma a coloro per i quali la libertà spirituale è una qualità inseparabile dalla vita, la sua essenza più sacra, che proprio per questo non può essere sottratta a una persona in favore di milioni».
Il coraggio dei dissidenti non rovesciò il regime bolscevico, ma lungo il filo rosso dell’amore al reale, segretamente, dal 1917 al 1990 cambiò la mentalità della popolazione, sottraendo al sistema le basi su cui esso per anni si era rigenerato. Nel saggio appassionante ed esaurientemente documentato di Marta Dell’Asta si scopre che persino Mikhail Gorbaciov dovette mutuare le parole d’ordine della sua perestrojka dalla cultura del dissenso, che ormai aveva attecchito troppo profondamente in Urss per poter essere ancora costretta alle catacombe. Dopo che, con le Olimpiadi del 1980, il regime aveva apparentemente inflitto il colpo di grazia al movimento dei dissidenti, quando l’ideologia comunista sembrava aver sopraffatto definitivamente l’ultima espressione della libertà dell’uomo, ecco che il dissenso si trovava clamorosamente ad aver vinto la sua guerra.