Shin Dong-hyuk (di cui Tempi ha raccontato l’incredibile storia) è nato in uno dei peggiori gulag del regime nordcoreano, il Campo 14. La sua colpa, e quella della sua famiglia rinchiusa con lui, scrive Riccardo Michelucci sull’Avvenire di oggi, è aver avuto dei disertori fra i parenti. «Cresciuto in un mondo dominato dai più bassi istinti di sopravvivenza, senza conoscere mai né la libertà, né i più elementari sentimenti umani», Shin sarebbe ancora un prigioniero se il 2 gennaio 2005, nonostante la malnutrizione e le deformazioni fisiche causate dal lavoro forzato e dalle torture, non fosse riuscito a eludere la sorveglianza, scavalcare la recinzione del gulag sopravvivendo all’alta tensione e a scappare in Occidente. Una fuga miracolosa «per cominciare finalmente a vivere, nel vero senso della parola», quella che, intervistato da Michelucci, racconta Blaine Harden, giornalista del Washington Post e autore del libro Escape from Camp 14: One Man’s Remarkable Odyssey from North Korea to Freedom in the West.
Shin è diverso dagli altri sopravvissuti ai gulag nordocoreani, spiega Harden a Michelucci, «perché in quel campo ci è nato e cresciuto». Per ventitre anni della sua vita non ha conosciuto altro che la realtà del Campo 14, uno dei tanti gulag nordcoreani dove sarebbero rinchiuse centinaia di migliaia di persone. Shin, prosegue Harden, soltanto adesso sta cominciando a conoscere e provare delle emozioni, «prima non sapeva neanche cosa fossero». Amore, fiducia, sentimenti che noi diamo per scontati, non lo sono per chi ha sempre vissuto «in un girone infernale di lavori forzati, privazioni, torture».
A quattro anni, Shin ha assistito alla prima esecuzione, a quattordici vide giustiziati sua madre e suo fratello, mandati alla forca per un tentativo di fuga. «È uscito dal campo solo fisicamente, non ancora psicologicamente, e continua a fare i conti con il suo tremendo passato». Ci ha messo un anno prima di confessare a Harden di essere stato lui a denunciare la madre e il fratello, per salvarsi la vita.
Adesso Shin ha ventinove anni e vive a Seul, in Corea del sud, dove lavora nell’ambito dei diritti umani e intervista altri sopravvissuti come lui. Non aveva mai sentito parlare di Dio, prima di fuggire dal Campo 14, e ora ha «trovato conforto» nel cristianesimo.