Non sono uno di quelli che quando arriva a Wimbledon bacia per terra, convinto che l’erba del vicino sia sempre più verde. Per contro, non sono uno di quelli che s’indignano e starnazzano perché i calciatori non cantano l’inno nazionale. Come sostiene un mio filosofo di riferimento “non è da questi particolari che si giudica un giocatore”. Un giocatore lo vedi dal coraggio e dalla fantasia: ho provato una forte emozione, guardando i rugbisti che, digrignando i denti, urlavano “Fratelli d’Italia”, prima della storica vittoria sulla Scozia. Ricordo, nei primi anni ’80, certe sere nebbiose in una trattoria del centro di Milano, covo di vecchi amatori della palla ovale: risotti gialli e racconti caldi. Ho davanti la faccia rugosa di Bollesan, emerso di mille mischie. Avete dei bambini? Mandateli al rugby: insegna lo spirito di squadra, l’amicizia, esalta lo scontro fisico, ma chiuso dentro la partita. Quando il match finisce si torna amici. Il rugby è l’unica disciplina in cui esiste il terzo tempo, dove le due squadre, insieme festeggiano e scorrono fiumi di birra. Senza prendersela con l’arbitro, senza fare reclami per la lunghezza della chiglia, senza tentare gli imbrogli che, sempre di più, stanno corrodendo gli altri sport.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi