Romano Scalfi
A colloquio con Dossetti e Lazzati è un volume di fondamentale importanza per capire le radici religiose e la sensibilità politica del cosiddetto cattolicesimo democratico ispirato da Giuseppe Dossetti, testa d’uovo della Dc nell’immediato dopoguerra, poi monaco, poi di nuovo politico nel 1994, come fondatore e animatore in chiave antiberlusconiana dei Comitati in difesa della Costituzione in ragione dei «suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili. spiritualmente inderogabili per un cristiano» (Dossetti, Lettera al sindaco di Bologna, 15 aprile 1994). Ecco, di quel volume imperniato sulla figura e la testimonianza del
maestro di Romano Prodi, di colui che ebbe un ruolo cruciale nella Costituente e specialmente nella redazione dell’articolo 7 della Costituzione (rapporti tra Stato e Chiesa), dell’insigne giurista e collaboratore di Alcide De Gasperi (fino al 1951, data in cui Dossetti si fece prete e abbandonò la Dc perché non ne condivise la linea filo atlantista e antistatalista), stupisce una cosa su tutto: stupisce che mentre dell’immensa “Chiesa del silenzio”, del cristianesimo martirizzato nell’est Europa – dall’Ungheria del cardinal Mindszenty alla Polonia del primate Wyszynski e dell’operaio Walesa, dall’Urss di Solzˇenicyn e Pasternak alla Cecoslovacchia degli Havel e Charta 77 – non compare assolutamente nulla, non un rigo, una nota, una virgola, quel fenomeno storico rubricato sotto la voce “comunismo” viene citato una sola volta in tutto il libro. E viene citato in quanto, riferisce Dossetti in un passaggio dell’intervista, una volta De Gasperi gli confidò che Togliatti avrebbe esclamato dello stesso Dossetti: «Se non avesse quella fede che ha, sarebbe un ottimo comunista!». In effetti un po’ si intuisce perché questa interessantissima conversazione che «ebbe luogo a Milano il 19 novembre 1984» sia rimasta inedita fino al mese di ottobre del 2003. Così come il cardinale Camillo Ruini riconobbe in quel monaco il «portatore di una visione catastrofale dell’Occidente», Romano Scalfi osserva che «se avesse vinto l’impostazione di politica estera che avrebbe voluto dare all’Italia Giuseppe Dossetti e l’interpretazione che il dossettismo ha dato del Concilio Vaticano II, probabilmente noi non saremmo qui a raccontarci questa storia».
Come gli amanuensi medievali
Padre Romano Scalfi si alza dalla scrivania per prepararci un caffè e spiegarci quello che sta facendo seduto davanti al computer. È lo stesso lavoro degli amanuensi medievali che salvarono dalla distruzione delle invasioni barbariche l’Odissea e i Vangeli, l’ateo Eraclito e gli epigrammi della letteratura greca erotica, Platone e Aristotele, Eschilo e tutto il resto che i nostri figlioli compulsano ancora in tutte quelle scuole in cui non si è ancora scoperta la pregnanza civile e multiculturale di sostituire lo studio della storia con il balletto pacifista intorno a un piatto di couscous. Insomma, padre Scalfi sta trascrivendo e traducendo dal russo all’italiano esattamente questo: «Con la memoria del martire sacerdote padre Ilija Benmanskij termina il terzo volume dei Martiri della Chiesa ortodossa russa curato dal monaco Damaskin Orlovskij, dedicato ai martiri della diocesi di Tver. Da questo volume abbiamo presentato soltanto alcune figure di martiri. Nel 1937 nella sola diocesi di Tver furono fucilati per la fede più di duecento sacerdoti. Secondo i dati forniti dalla Commissione statale per la riabilitazione delle vittime risulta che nell’anno 1937 i sacerdoti condannati furono 136 mila, di cui fucilati 85.300. Nel 1938 i sacerdoti condannati furono 28.300, fucilati 21.500. Nel 1939 i sacerdoti condannati furono 1.500, fucilati 900. Nel 1940 i sacerdoti condannati furono 4 mila, fucilati mille. In cinque anni nell’Unione Sovietica furono fucilati 109.800 sacerdoti ortodossi. A questi vanno aggiunti i martiri delle altre confessioni religiose e i martiri prima e dopo i cinque anni elencati».
Dalla parrocchia a Russia Cristiana
Ora, nonostante le dimissioni dell’arcivescovo di Varsavia (monsignor Stanislaw Wielgus, al posto del quale il 2 marzo Benedetto XVI ha nominato Kazimierz Nycz, vescovo della diocesi di Kolobrzeg-Koszalin) abbiano suscitato una certa curiosità intorno a presunti Mitrokhin in chiave eccelesiastica, non sembra che il libro di don Tadeusz Isakowicz-Zaleski, uscito in Polonia il 28 febbraio e contenente altre rivelazioni sui rapporti tra clero e spie del passato regime comunista, sia destinato a sconvolgere la storia. Poche le novità su cui la Chiesa non abbia già fatto chiarezza. Ma soprattutto un po’ angusta l’operazione che sembra stendere una copertina d’autodafé sulle persecuzioni subite dal popolo, dai credenti e dai loro sacerdoti nel paese di Lech Walesa e di Solidarnosc. A Seriate, nella Villa Ambiveri che ospita Russia Cristiana, la creatura di padre Romano Scalfi che dal 1957 combatte la battaglia della fede nei paesi rimasti incatenati per settant’anni al gulag comunista, lo “scoop” è stato accolto un po’ come una cosetta scritta sull’acqua. «Dov’è la notizia? Prenda l’Unione Sovietica. Per quasi settant’anni la Chiesa ortodossa è stata sotto il totale controllo del Kgb. Che nominava i vescovi in base ai profili stilati dai suoi agenti. Sia chiaro, sono il primo a non dimenticare i martiri che con il loro sangue hanno incarnato la resistenza pacifica al totalitarismo e che con i loro corpi hanno lastricato le vie della fede nell’Est europeo. Vede, no? Le biografie di questi sacerdoti russi riempiono sei volumi di cinquecento pagine ciascuno. Ma proprio per questo le rivelazioni polacche non mi scandalizzano. Niente può farci dimenticare la realtà, la profonda differenza tra vittime e carnefici. D’altronde, senta, dopo Lenin, la Chiesa in Russia non è mai stata tanto perseguitata come negli anni di Nikita Kruscev. Eppure anche Giovanni XXIII, nel clima conciliare e di Ostpolitik che dominava nei primi anni Sessanta, ricevette la figlia di Kruscev mentre rifiutò di ricevere noi che ci recavamo a Mosca per tenere i rapporti con gli ortodossi e il samizdat: mi accompagnò in Vaticano il celebre biblista monignor Galbiati, aspettammo ore, ma il Papa non ci ricevette. E quando egli uscì dal suo studio e domandai una benedizione sulla nostra missione in Russia egli ci rispose secco: “Non c’è bisogno di benedire nessuno”. Vede che la storia è più complicata dei libri che vorrebbero portarla in tribunale?».
Padre Scalfi compirà l’anno prossimo 85 anni. Portati con la stessa soavità e leggerezza della sua lunga e candida barba da starets ortodosso. Una grande avventura è stata la vita di questo allegro trentino nato a Tione nel 1923 e che fin da bambino aveva coltivato il sogno di andare in missione in Russia. Per la verità in Russia padre Scalfi ci è andato solo per dieci anni di seguito, tra il 1960 e il 1970. Nel clima sovietico, «paranoico e ossessivo di una Mosca dove eri tenuto costantemente sotto controllo, pedinato, inseguito da telefonate anonime fin nel cuore della notte. Un incubo che finì nel 1970, quando mi respinsero alla frontiera e mi diedero il foglio di via con quel marchio sul passaporto: “Persona non gradita”».
Prima di fondare Russia Cristiana, Scalfi era diventato prete nella diocesi di Trento, aveva studiato dai gesuiti al Russicum di Roma («da dove partì il primo gruppo di padri inviati da Pio XI a evangelizzare la Russia di Stalin: furono quasi subito arrestati») e alla metà degli anni Cinquanta fu a Bologna tra i cosiddetti “preti volanti”, inviato dai superiori a contrastare “dal basso” la propaganda comunista. «Improvvisavamo comizi per le strade, dando battaglia culturale e facendo informazione su quanto accadeva realmente in Urss. Sa, allora si rischiava ancora la pelle in certe zone dell’Emilia». Dopo il breve soggiorno bolognese, padre Scalfi si trasferisce definitivamente nel capoluogo lombardo. «Una volta giunto a Milano, sul finire degli anni Cinquanta, andavo a elemosinare nelle parrocchie un ambito dove potessi servire la causa del Vangelo in Russia. Trovai porte chiuse quasi ovunque. Se non fosse stato per don Luigi Giussani, con cui ho vissuto nella palazzina di via Martinengo, lui al piano terra, io al piano di sopra, per oltre trent’anni; se non fosse stato per l’amico Giuss che mi prese con sé e mi lanciò tra i giessini di via Statuto, con i quali feci un coro, una rivista, convegni, conferenze, libri e viaggi all’Est, non so se sarebbe nata un’opera come la nostra». Vale a dire la più antica e consolidata esperienza occidentale di conoscenza e amicizia tra cattolicesimo e ortodossia.
Il sogno di Giovanni Paolo II
Oggi Russia Cristiana è una fondazione. In Italia è attiva nella convegnistica, nel recupero della liturgia bizantina, nelle corali in lingua russa. Possiede una casa editrice (La Casa di Matriona), una rivista (L’Altra Europa) e una scuola iconografica (a Villa Ambiveri). Ed è presente a Mosca, con una libreria che in una delle capitali più apparentemente atee del mondo vende e distribuisce centinaia di libri religiosi al giorno e con un centro culturale che ha filiali in altre città della Russia, in cui organizza decine di serate all’anno di incontri con teologi, scrittori, intellettuali. «Tenga presente che l’unità che abbiamo come cattolici con settori importanti dell’ortodossia è così cordiale e profonda, che oggi noi siamo presenti nella facoltà teologica ortodossa di Minsk e non editiamo nessun libro senza il nulla osta del Metropolita Filarete». Russia Cristiana ha ristampato e pubblicato in Russia l’Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger. «E sa chi ne ha curato la prefazione? Il metropolita Kirill, numero due del Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie». Non è tutto. «Il Papa ha scritto una lettera di suo pugno in cui si dice “in completa sintonia” con Kirill». Crede che a questo punto potrebbe essere vicino quello storico viaggio in Russia vanamente inseguito da tanti papi e che soprattutto Giovanni Paolo II avrebbe tanto desiderato realizzare nel corso del suo grande pontificato? «Non ci sarebbe da meravigliarsi di un incontro tra il Patriarca e questo Papa. Oggi in Russia si respira un’atmosfera di armonia tra ortodossi e cattolici. E poi le visioni del Patriarca di Mosca e del Pontefice di Roma sembrano molto convergenti. Entrambi denunciano il laicismo fondamentalista. Entrambi sono consapevoli dell’imponenza della sfida musulmana. Gli ortodossi non dimenticano né che fu il secolarizzato Pietro il Grande a chiudere il Patriarcato, né che Mosca è una città in cui l’islam sta conoscendo un’espansione senza precedenti, si parla di quasi due milioni di musulmani, un buon 20 per cento dei residenti. E poi certe libertà come le nostre in Russia non le vogliono. Mentre la Chiesa di Roma è vista come un simbolo di umanità e di resistenza alla disumanità. A Mosca piace il Papa tedesco e piace anche perché Ratzinger capisce l’Oriente. Sì, certo, penso che il clima sia senz’altro più favorevole per un incontro tra il Patriarca Alessio II e il papa Benedetto XVI. Ma la cosa più importante è che cresca questa atmosfera di comprensione e collaborazione tra cattolici e ortodossi».
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