Siamo riusciti a partire solo lo scorso autunno, sotto la minaccia dei primi freddi polari e delle tempeste del mare del Nord. Il nostro itinerario doveva coincidere con le vie dei sacerdoti cattolici perseguitati: il grande monastero sull’isola centrale delle Solovki, dove erano stati inizialmente concentrati; l’isola Anzer, dove poi erano stati trasportati; di nuovo l’isola maggiore, sul colle dell’Ascia, dove venivano isolati i condannati alla fucilazione e infine il ritorno sulla terraferma, fino al bosco di Sandormoch, dove soltanto nella prima settimana di novembre del 1937 furono fucilati e sepolti 111 prigionieri delle Solovki, tra i quali molti cattolici, di 35 dei quali conosciamo anche il nome.
Un’isola sospesa tra terra e cielo Capitammo sul treno il giorno del lutto nazionale per le vittime delle stragi di terrorismo, preludio degli ultimi conflitti ceceni. Alla nostra lettura delle lodi, con la commemorazione dei defunti, si unirono silenziosamente altri passeggeri, tirando fuori dei libri di preghiere ortodossi dalla borsa. Stavano andando anche loro alle Solovki; non c’è stato bisogno di discorsi particolari per sentirsi una cosa sola.
Siamo arrivati alla base di Kem’ dopo la mezzanotte, dopo 28 ore di treno da Mosca, e siamo saliti subito sul traghetto, in uno stato d’animo oscillante tra il compunto e il preoccupato, vuoi per il progressivo immedesimarsi con i convogli dei martiri, vuoi semplicemente per la paura delle bufere marittime. Entrambe le sensazioni erano associate all’evidente antichità del traghetto, risalente all’epoca dei primi bolscevichi. L’umore non era migliorato all’arrivo, verso le 5 del mattino, quando nella penombra crepuscolare intravvedemmo la sagoma imponente del monastero. Dopo quattro ore di relativo riposo nel piccolo albergo costruito da intraprendenti abitanti dell’isola (in tutto circa 1200 persone, con una media criminale di un furto ogni sei anni), la guida decide di ricaricarci tutti nel medesimo traghetto, perché miracolosamente il tempo sembra tornato estivo, e bisogna coglierlo al volo. Altre tre ore abbondanti di traversata e arriviamo all’isola di Anzer, in pieno giorno, e per la prima volta veniamo colti dal fascino stordente delle Solovki, un luogo a metà tra la terra e il cielo, misterioso e selvaggio, troppo lontano per essere ancora una parte di noi e troppo reale per non costringerti a fare i conti con te stesso.
Le memorie dei martiri L’isola di Anzer era il sogno degli eremiti e il terrore dei carcerati, luogo di prove estreme e di assoluta purezza; sulla cima che sovrasta l’isoletta i primi hanno innalzato un tempio per la preghiera, dandogli il nome che meglio non avrebbe potuto descrivere la condizione dei secondi: il Golgota. Qui, dove avevano pregato i più grandi asceti della storia russa, spedivano i prigionieri in isolamento di punizione. Non c’erano guardie: i “politici” erano lasciati alla merce’ dei “comuni”, vere e proprie belve umane padroni di un’isola in cui non sono mai esistiti animali da preda.
Ci siamo incamminati sul sentiero verso il Golgota recitando le preghiere della “Via Crucis”, tra una stazione e l’altra leggendo le memorie di coloro che l’avevano vissuta in prima persona, più di settanta anni prima. Non credo sia possibile compiere un esercizio di pietà più assoluto ed educativo, un po’ come capitava ai pellegrini del IV secolo che andavano a riscoprire i luoghi della passione di Cristo in Terrasanta. Il Calvario delle Solovki termina con una salita impervia, che obbliga comunque al silenzio per debito d’ossigeno, e conduce al luogo della preghiera e della croce, in un contorno di bellezza assoluta e sconfinata.
Un monastero non bizantino L’unione della croce con la bellezza è la fonte del mistero delle Solovki, e lì abbiamo celebrato la nostra prima Messa da pellegrini; il sole è tramontato in un attimo, all’improvviso, dopo la consacrazione dell’Eucarestia (non è un tocco romantico, ci sono le foto a dimostrarlo). Il ritorno ci è sembrato leggero.
Il giorno dopo abbiamo visitato il monastero centrale, aggiungendo un’altra evidenza, oltre a quelle del bello e del terribile: l’evidenza della storia, la grande storia russa, la storia di grandi uomini come il santo metropolita Filippo di Mosca, il costruttore e superiore del monastero, il martire medievale che divenne il più grande testimone della libertà della Chiesa di fronte allo zar. Questo monastero, vertice della santità russa, non ha nulla dello spirito bizantino delle antiche chiese di Kiev o di Novgorod, né assomiglia ai rifacimenti del romanico e del barocco di Mosca o san Pietroburgo. Le mura, assemblate con massi di dimensioni inusitate, circondano un complesso di edifici dallo stile indefinibile, che sembrano troppo alti o troppo larghi, mai adeguati. Per inciso, le Solovki sono anche la terra dei geni dell’edilizia, della botanica e dell’agricoltura; non è un caso che al monastero appartennero per lungo tempo quasi un terzo delle terre russe, e quando lo zar lo assediò per schiacciare la rivolta dei monaci scismatici, che non volevano accettare la riforma illuministica dei riti, dovette attendere otto anni prima di penetrare nelle mura, e vi riuscì soltanto per il tradimento di uno dei monaci stessi. L’inespugnabilità è forse l’unica somiglianza con l’antica Bisanzio, e fece delle Solovki un luogo strategico ancora fino alla seconda guerra mondiale.
Nell’isola madre di tutti i lager, sono tornati i monaci Nel monastero sono tornati i monaci, una quindicina tra russi e moldavi, che riescono a malapena a rendere vivibile qualche spazio per le celle e la preghiera, in mezzo alle rovine tra cui ancora si vedono la tracce del terribile “elefante” (in russo Slon, la sigla dei lager di destinazione speciale delle Solovki, la “madre di tutti i lager”). Accanto all’altare centrale, che i monaci moldavi circondano di erbette magiche per tenere lontani i diavoli e gli infedeli (c’è molto di paganesimo nell’ortodossia contemporanea), si apre un grande camerone, che una volta era la cappella di San Savva, che divenne poi il campo di concentramento del “tredicesimo scaglione”, quello dove c’erano i preti cattolici. Negli angoli della chiesa sconsacrata essi celebravano la santa Messa, conservando l’uva passa per filtrare il vino (avevano stabilito che la dose necessaria era di almeno sette gocce), una alla volta perché la concelebrazione allora era proibita, e avevano potuto nascondere un solo messalino. Dal finestrone si vede il sentiero lastricato le cui pietre furono poste da una squadra di carcerati composta esclusivamente da vescovi, tra cui il cattolico Boleslav Sloskan, tra i lazzi delle guardie e le preghiere dei chierici meno importanti e più giovani.
Croci e abeti. Boschi e fosse comuni Il giorno seguente dovevamo raggiungere la collina dell’Ascia, sull’isola centrale, che sorge a picco su uno dei laghetti interni, in mezzo a un altro panorama mozzafiato, sede di uno dei tanti antichi romiti. Qui si giustiziavano i condannati prima degli anni delle fucilazioni di massa, sparando alle vittime allineate dietro a una sagoma della stella rossa formata da pietre disposte sul terreno, a ridosso delle mura dell’eremo, a significare l’onnipotenza del potere sovietico. I cadaveri si accumulavano sull’orlo della ripidissima scala di legno che conduce al lago sottostante, così che si poteva facilmente farli rotolare di sotto, come racconta Solzhenicyn nell’“Arcipelago gulag”. La scala oggi è impraticabile, ma nessuno pensa di ripararla. Per raggiungere la collina bisogna remare per alcune ore tra i laghetti e i canali di collegamento, altra opera dei geni del Nord, penetrando sempre più a fondo nella bellezza e nella memoria. Nei dintorni del colle sorgeva un’altra piccola cappella, l’eremo di San German, il primo grande starets. È lì che i preti cattolici di rito orientale avevano ottenuto per alcuni anni il permesso di celebrare l’Eucarestia, associando poi i preti latini polacchi. La cappella in seguito venne adattata e il luogo coperto dalla fitta vegetazione del bosco, e se ne era persa la memoria; solo alcuni giorni prima del nostro arrivo la guida locale aveva ritrovato nel terreno una delle pietre dell’ingresso. I laici del gruppo hanno lasciato il compito a noi quattro sacerdoti accompagnatori: abbiamo eretto sul luogo un altare di pietre, su cui poi abbiamo celebrato la Messa. Mentre recitavo la preghiere del messale, pensavo che forse Dio mi aveva voluto sacerdote solo per celebrare quella Messa…
L’ultima celebrazione del nostro pellegrinaggio è avvenuta poi nel bosco di Sandormoch, quello delle fucilazioni in grande stile. Non è possibile ormai distinguere le ossa nelle fosse comuni, che a poco a poco sono state ritrovate, per cui ad ogni fossa è stata piantata una croce. Il numero delle croci rivaleggia ormai con quello degli abeti, si distinguono da lontano per il colore più chiaro.