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Quasi quasi voto Assad

Perfino l’inviato ad Aleppo del New York Times è costretto a riconoscere «la realtà di una ribellione corrotta, brutale e rovinata dai suoi sponsor stranieri»

Rodolfo Casadei
06/06/2017 - 1:00
Esteri
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Colpo di scena. Il New York Times manda un inviato in Siria nelle zone sotto controllo governativo e scopre che i cattivi sono i ribelli e i loro sponsor. Assad non è buono, questo no, e se fosse stato meno rigido all’inizio del conflitto si sarebbe risparmiato tanto spargimento di sangue. Ma i ribelli sono più cattivi e meno affidabili di lui, non possono offrire nessun futuro alla Siria. A scriverlo è uno che conosce la regione, l’ex corrispondente da Beirut Robert F. Worth. Che torna ad Aleppo dopo alcuni anni di assenza. «Volevo capire come una città che sembrava così estranea alla politica di qualsiasi tipo, si fosse divisa e distrutta.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Anche i siriani facevano fatica a rispondere alla mia domanda. In marzo ho incontrato un avvocato che aveva partecipato alle proteste nel 2011. Non si considerava più membro dell’opposizione. “Nessuno sta al cento per cento col regime, ma tutta questa gente è unita dal rigetto per l’opposizione,” mi ha detto. “In dicembre, i siriani all’estero che credono nella rivoluzione mi chiamavano e dicevano: ‘Abbiamo perso Aleppo’. E io rispondevo: ‘Cosa intendete dire, era solo una carta in mano ai turchi difesa da jihadisti’”. Rifiutano di riconoscere la realtà di una ribellione che è corrotta, brutale e compromessa dai suoi sponsor stranieri. Tutto questo è vero. Aleppo est non sarà stata Raqqa, dove l’Isis ha messo in mostra la sua ottusa distopia islamista e le sue decapitazioni di massa. Ma come simbolo della Siria del futuro è negativa quasi nella stessa misura: una caotica terra desolata piena di milizie in lotta fra loro – alcune islamiste radicali – che ammassavano cibo e armi mentre la popolazione moriva di fame».

Worth racconta il suo incontro con Freddy Marrache, un commerciante la cui famiglia abitava un palazzo nella zona del suk occupata dai ribelli. «Prima hanno rubato tutto, poi hanno bruciato tutto», dice. E racconta la storia di un prezioso dipinto che si trovava in una sala. «Il quadro era finito in Turchia, come la maggior parte di ciò che i ribelli avevano rubato in tutta Aleppo. Un commerciante di antichità di Istanbul si offrì di mediare la restituzione per 20 mila dollari. Quando i proprietari protestarono che era stato rubato, il mercante rispose sprezzantemente: “Mi arrivano cose dalla Siria tutti i giorni”».

«L’unico che può proteggerci»
Worth spiega cosa è successo ad Aleppo mettendolo in prospettiva storica. «Il cuore del conflitto ad Aleppo come in gran parte della Siria è stato il contrasto fra benessere urbano e povertà rurale. Nel tempo questo contrasto si è esteso alla città, quando Aleppo est si è riempita di migranti poveri. Molto religiosi e perlopiù analfabeti, agitati dal risentimento di classe, divennero combattenti di una violenta insurrezione guidata dai Fratelli Musulmani negli anni Settanta. (…) Una delle tragedie di Aleppo è che questo abisso fra ricchi e poveri si stava lentamente ricomponendo negli anni precedenti all’insurrezione del 2011. Era in corso una rinascita economica, alimentata da migliaia di fabbriche alla periferia della città. (…) Per tutto il 2011, mentre nel resto della Siria scoppiavano le proteste, la più grande città restava tranquilla. Ma nel 2012 nei villaggi oltre i confini della città arrivavano armi attraverso la frontiera turca e si formavano battaglioni. La campagna ribolliva, mi ha spiegato Adnan Hadad, un oppositore che a quel tempo apparteneva al Consiglio militare rivoluzionario di Aleppo, un gruppo guidato da ufficiali militari siriani che avevano disertato. Il Consiglio era sensibile alle richieste occidentali di preservare le istituzioni dello Stato siriano, ma la popolazione rurale del posto tendeva ad allinearsi a Liwa al-Tawheed, un gruppo più islamista e meno paziente. I capi di Liwa al-Tawheed avevano cominciato a ricevere fondi da donatori del Golfo. Nella primavera del 2012 cominciarono a premere per una conquista militare di Aleppo, accusando il Consiglio di eccessiva cautela e persino di accordi segreti col regime. In luglio Tawheed prese in mano la situazione: insorti in armi invasero i quartieri orientali e sud-occidentali della città, occupando abitazioni civili e commissariati di polizia nel nome della rivoluzione. Hadad considerò la mossa un errore fatale e si dimise dal Consiglio militare».

Nella parte conclusiva Worth spiega la perdurante centralità di Assad, il leader politico preferito persino dagli oppositori. «Il regime degli Assad sorse dopo un periodo di instabilità negli anni Cinquanta e Sessanta. Hafez al-Assad, padre di Bashar, trionfò in parte manipolando una costellazione di rivali che si odiavano l’un l’altro ma dipendevano tutti da lui. Sapevano che senza di lui al centro sarebbe tornato il caos, e ciò sarebbe stato negativo per i loro affari. Questo è ancor più vero al giorno d’oggi. (…) Molta gente comune oggi vede Assad come la sua unica barriera contro un genere di caos molto più tossico. Il mio amico imprenditore siriano mi ha detto che due volte ha riunito una dozzina di colleghi per cena e ha posto loro una domanda, giurando che la risposta sarebbe rimasta confidenziale: se fosse spettato loro nominare il prossimo presidente della Siria, chi avrebbero scelto? Nessuno degli ospiti era sostenitore del regime. Con sua grande sorpresa, quasi tutti hanno fatto il nome di Assad. Quando ha chiesto perché, tutti hanno risposto allo stesso modo: “Assad è l’unico che può proteggerci dai suoi stessi demoni”».

@RodolfoCasadei

Tags: aleppobashar al-assadnew york timesSiria
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