Plotone d’informazione francese
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il filosofo francese Marcel Gauchet lo ha chiamato il «Partito dei media», l’unico partito che non ha mai problemi di adesioni e tesseramenti, avendo esso amplificatori e propagatori in ogni salotto televisivo dove si pensa bene, e in ogni festival culturale dove si lotta contro il «nuovo fascismo» (si legge populismo). È quel partito che, «accecato dai buoni sentimenti», per riprendere le parole del giornalista Brice Couturier, «preferisce da un lato abbeverarci con piccole notizie insignificanti, e dall’altro con grandi indignazioni». In Francia, come raccontato nell’ultimo numero della rivista Eléments, è il partito maggioritario nelle redazioni dei giornali e delle televisioni, un partito che accetta soltanto devoti all’ideologia di cui si fa portatore – l’ideologia del Progresso, dell’Altro, del multiculturalismo, del gender – che scomunica gli insubordinati, seleziona chi sta dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata della Storia, e ha aumentato, dopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il suo tasso di intransigenza verso coloro che non pensano come si deve pensare.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Per il «Parti des médias» esiste soltanto il bianco e il nero, il candore delle anime belle che con le loro idee fanno “avanzare il mondo”, e l’oscurità rappresentata dai battitori liberi, dagli indisciplinati che vanno tenuti alla larga dai circoli che contano: non sia mai che possano aprire un dibattito. Come Robert Ménard, fondatore di Reporters sans frontières, oggi sindaco di Béziers, la cui storia è presentata da Eléments quale esempio lampante di questa attitudine di un certo mondo mediatico a elargire patenti di “frequentabilità” e a ritirarle prontamente appena quel qualcuno che aveva ricevuto l’unzione esce dai binari del politically correct.
Isolare i “malpensanti”
Fino a quando Ménard presiedeva l’Ong in difesa della libertà d’espressione più famosa del mondo, era visto come un’icona dalla gauche parigina, come un cavaliere bianco che percorreva il mondo in lungo e in largo in difesa dei diritti umani. Poi, nel 2003, ha scritto La censure des bien-pensants, nel quale attaccava frontalmente la censura e l’autocensura delle élite parigine; nel 2011, ha rincarato la dose con Vive Le Pen!, pamphlet scorrettissimo contro gli «antilepenisti ordinari» (copyright Pierre-André Taguieff) che passavano il loro tempo a demonizzare Marine Le Pen e il suo Front National; e nel 2014, in occasione delle elezioni comunali, si è fatto eleggere sindaco a Béziers con l’appoggio del Fn, diventando per tutti, da quel momento, l’infrequentabile Ménard, il “néo-facho”, il reazionario, l’appestato.
«Il problema per alcuni giornalisti, che non immaginano nemmeno che si possa avere un’opinione diversa dalla loro, è che io non sono a destra bensì a destra della destra, ossia la categoria di esseri umani più improbabile che si possa trovare in una redazione parigina. I giornalisti mi hanno fatto pagare questo tradimento originale», ha dichiarato Ménard a Eléments.
Endogamia, tribalismo, conformismo, sono le tre caratteristiche di questo mondo mediatico che ha perso il contatto con la realtà – un recente sondaggio del Cevipof, il centro di ricerche politiche di Sciences Po, ha evidenziato che soltanto il 24 per cento dei francesi ha fiducia nei media, 6 punti percentuali in meno delle banche –, e non è più capace di dibattere sui temi che agitano l’attualità, senza condannare, anatemizzare, isolare i “malpensanti”.
E questo è solo l’inizio
Ingrid Riocreux, affermatasi in Francia come una delle più importanti studiose del discorso mediatico, ha denunciato questo «prêt-à-parler giornalistico», secondo le sue parole, in un saggio appena uscito, La langue des médias. Destruction du langage et fabrication du consentement: la tendenza a utilizzare lo stesso linguaggio, a reiterare le stesse idee preconfezionate per confortare la doxa dominante, a diffondere un pensiero monolitico che annulla il pluralismo. Riocreux punta il dito contro la pratica sempre più diffusa delle «interviste inquisitorie», dove l’intervistato non si trova più di fronte a dei giornalisti interessati alla sua opinione, alla sua analisi su un determinato di tema, ma a dei piccoli Torquemada che vogliono soltanto sapere se la pensa come loro, se è allineato, o se è un indisciplinato reazionario, un “retrogrado” da mettere all’indice.
Secondo Slobodan Despot, direttore del sito www.antipresse.com, il nuovo indice è rappresentato da quegli strumenti di decodificazione messi in piedi da alcuni giornali detti “di riferimento”, come il Décodex del Monde in Francia o il Fact Checker del Washington Post negli Stati Uniti, che si arrogano il diritto di decidere quali sono le buone e le cattive notizie, quali sono le Notizie con la N maiuscola e quali invece le fake news. Ma come sottolineato da Despot, «c’est le monde à l’envers»: i più grandi produttori di fake news si ergono a giudici garanti della veridicità dei fatti, non c’è notizia che non passi sotto la lente inquisitoria dei loro sistemi di decodificazione, ossia di filtraggio secondo i canoni del politicamente corretto. Ed è solo l’inizio, dato che i giganti di internet stanno già preparando algoritmi impersonali che faranno l’informazione. Scrive Despot: «George Orwell è preistoria».
Foto Ansa
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