Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da quando non mi invitano più in televisione è con grande soddisfazione che frequento il Consiglio comunale di Milano. Consapevole di non avere alcun futuro politico. Ma interessato a dare una mano a ristabilire il primato della politica. Che è l’arte del vivere civile. Infatti, diversamente da quel mestiere antico della prostituzione al giustizialismo demagogico, che giura e spergiura di non voler guardare in faccia nessuno, costi quel che costi, anche a costo di far del mondo rovine, come dice un famoso adagio latino (fiat iustitia et pereat mundus) che la leggenda fa risalire a uno degli assassini di Giulio Cesare (e in effetti solo un assassino può amministrare la giustizia così, parandosi dietro “la legge è la legge”; questa fu la difesa di Eichmann e degli altri boia nazisti, «abbiamo obbedito agli ordini, abbiamo applicato la legge»), politica è l’attività – per dirla con Agostino – della città dell’uomo. È trasformare la guerra in mediazione e fair play.
Fatta questa premessa olimpica, plaudo da precursore della Conferenza episcopale italiana e invito a partecipare in massa alla “Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà” organizzata dai radicali il 6 novembre a Roma. Intitolata a Marco Pannella e a papa Francesco. Precursori, sì, perché apprendiamo che quest’anno anche la Cei benedice i radicali. E aderisce alla loro marcia. Cosa che non può che farci piacere. Parola di chi ha gridato per molto tempo nel deserto che Pannella ha vinto, a sinistra e a destra, incarnando in sé la mentalità dominante. Ma che non è vero che non si possa stare con lui, buonanima, nell’unica battaglia (e non ultima, poiché radicale fu anche l’ingaggio di Lorenzo Strik Lievers per la scuola libera) che ha un segno di grandezza politica tragica e shakespeariana.
Tragica, perché sembra impossibile cambiare verso alla giustizia italiana cominciando da un’amnistia, passando per l’abolizione dell’obbligo dell’azione penale e, non ultima, dalla separazione delle carriere dei magistrati. Tragica, perché come fai a parlare di carceri in un’Italia stordita da molti lustri di forcaioli incarogniti? Tragica, perché sembra impossibile rimettere i piedi per terra e scendere da un pianeta rimasto senz’aria. Agonizzante nel risentimento e inflaccidito nel tenerume. Dove il direttore non gode se non mette in prima pagina vittime e orsacchiotti. E il demagogo deperisce se gli sfugge l’oggetto del suo odio quotidiano.
Tragica, a causa del combinato disposto che ha portato a considerare magistrati come Piercamillo Davigo poco meno di un Hans Kelsen. E il fare legislativo un rimorchio degli indignados di turno. Tragica, perché dopo valangate di leggi anticorruzione e di gazzarre manipulitiste, siamo qui a raccontarci un gioco a somma zero. A dimostrazione che «più la repubblica è corrotta, più promulga nuove leggi» (Tacito).
Per concludere la predica sul lato shakespeariano, dirò: sono anche tanti anni che tengo in bella vista il regalo di Carmen Giussani! Mi ricorda Il mercante di Venezia, atto IV, scena I. E che «La misericordia è al di sopra del potere scettrato».
Fuori da questa maestà, la situazione è eccellente. “Eccellente”, nel senso inteso dal sanguinario Mao, di “grande confusione sotto il cielo”, “favorevole alla rivoluzione”. Che è sempre un gioco a somma zero. Guardatevi intorno. Tutto è rivoluzione. Ma così rivoluzione, che se non spaventa più il fatto che devi avere molti quattrini per tenere il passo di una giustizia che magari prima ti assolve, poi ti condanna e, infine, botta di fortuna (ma anche no), conferma l’assoluzione (caso Mediatrade), spaventa che, in assenza della politica, democrazia e stato di diritto vanno a rotoli. E nessuno ci pensa. Tranne quando capita di riflettere su che fine hanno fatto – grazie ai verdetti “rivoluzionari” delle Corti – i pronunciamenti del popolo e le leggi del Parlamento. Dal referendum 2005 alla stepchild adoption 2016. E quanto più sali di grado nelle Corti, tanto più vale quello che diceva Kelsen. Ovvero che dietro il “diritto positivo” non c’è niente. Ma c’è Gorgone. «Il volto del Potere».
Ps. E adesso mi piacerebbe correre a sviscerare la storia di una gara d’appalto vinta da un’azienda polacca che ha venduto a Milano ottimi autobus a un ottimo prezzo. E i particolari del ricorso (vincente) al Consiglio di Stato di chi ha perso la gara. Si chiama Fiat Iveco. E i suoi autobus sono costati 5 milioni di euro in più ai contribuenti. Ma non c’è più spazio.
E forse è meglio così.
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